Violante: c’è bisogno di una democrazia compiuta, e occorrono tre condizioni I magistrati? Debbono cambiare i comportamenti, prima di ogni altra cosa

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Intervista a tutto campo all’ex presidente della Camera sul ruolo del Parlamento, sulla selezione della classe dirigente, sulla magistratura richiamata a una maggiore consapevolezza delle sue responsabilità; sul Parlamento della prossima legislatura e sul rischio di eccesso  dei poteri del governo. E poi su Draghi, il Quirinale e il lessico parlamentare che si è gravemente imbarbarito

 

Una domanda senza giri di parole: si può ancora parlare di centralità del Parlamento?

I parlamenti sono centrali nelle democrazie fondate sul principio di rappresentanza. Tuttavia rappresentare non basta. Bisogna anche decidere. Il sistema decisionale del nostro Parlamento era fondato sul primato dei partiti e sulla presenza di meccanismi di rallentamento della decisione, proprio per favorire l’intesa tra i partiti. Pensi che in Assemblea Costituente si scelse il bicameralismo per una sua funzione ”ritardataria” della decisione perché, spiegò Mortati, “il meditare su una deliberazione presa dalla prima Camera, l’approfondire il problema e il ripetere la discussione, possono agevolare così la valutazione della convenienza politica della legge come il suo perfezionamento tecnico.”.

 

E oggi come stanno le cose?

Oggi la sopravvenuta fragilità dei partiti e il manifestarsi di plurime e mutevoli esigenze della comunità sta ponendo il problema di adeguarsi ai tempi. Occorre cercare un equilibrio tra rappresentanza e decisione. Inoltre la attuale velocità dei cambiamenti mal si presta ad un sistema regolatorio fondato sulla legge, che ha tempi lunghi di gestazione e rapida obsolescenza.  Finché non si risolve questo problema crescerà il rischio della marginalità. Io penso che il parlamento del futuro sarà prevalentemente una istituzione del controllo, non della regolazione che dovrà spettare ai governi.

 

Quanto sono fondate le critiche rivolte ai governi, durante la pandemia, di aver abusato dei loro poteri riducendo gli spazi dell’istituzione parlamentare?

L’uso dei poteri pubblici non è lo stesso nelle fasi di normalità e nelle fasi di emergenza, soprattutto quando l’emergenza riguarda la vita e la politica diventa perciò biopolitica, politica della vita biologica. La Freedom House, uno dei più importanti centri di ricerca sui diritti di libertà, ha calcolato nell’ottobre 2019 che in un quarto dei paesi del mondo la pandemia ha prodotto abusi di potere e che in metà degli Stati, a causa della pandemia, sono state introdotte limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero. A risultati analoghi è giunta l’Economist Intelligence Unit, osservando che in tutto il mondo, per effetto del coronavirus c’é stata una restrizione delle libertà fondamentali, paradossalmente più rilevante nei paesi democratici che in quelli autoritari. La spiegazione, peraltro, è semplice. I paesi democratici sono partiti da livelli più alti di libertà e sono stati costretti a restrizioni del tutto inedite come il divieto di uscire di casa, il distanziamento, i limiti alla ospitalità in casa propria. Negli stati autoritari le restrizioni adottate per combattere il coronavirus sono state solo piccole estensioni delle restrizioni già in atti e quindi hanno fatto scendere solo di pochi punti il già basso livello di democraticità.

Da noi il ricorso quasi quotidiano al potere di decreto, con riduzione del potere d’intervento delle Camere, è stato determinato dalle oggettive condizioni nelle quali si trovava il paese; oggi l’Italia è messa molto meno peggio degli altri paesi anche grazie all’uso di quei poteri. Certo, occorre tornare alla normalità appena possibile.

 

Il taglio dei parlamentari – da 600 a 400 deputati, e da 315 a 200 senatori – renderà più funzionale il Parlamento o creerà nuovi problemi?  In che modo si potrebbe sfruttare al meglio questa riduzione?

Senza alcuni interventi riformatori sono prevedibili nuovi gravi problemi di funzionamento con ulteriore ricorso all’ “eccesso” dei poteri del governo. Occorrerebbe prevedere l’adattamento dei regolamenti parlamentari alla nuova situazione, almeno riducendo il numero delle Commissioni, che oggi sono 14 per ciascun ramo del Parlamento. Ritengo inoltre indispensabili due riforme costituzionali: il ricorso al voto del Parlamento in seduta comune in alcuni casi particolari (voto di fiducia, legge di bilancio, richiesta del governo approvata dalle due Camere) e la sfiducia costruttiva per stabilizzare i governi, soprattutto al Senato dove il ridotto numero dei componenti, duecento, può rendere decisivo il cambio di opinione di soli tre o quattro senatori.

 

Se non ricordo male, Lei Presidente è per il bicameralismo differenziato, se non proprio per il monocameralismo. Secondo Lei, per una riforma che diversifichi le funzioni delle due Camere quanto dovranno aspettare gli Italiani?

Certo, dopo avere equiparato l’elettorato attivo di Camera e Senato, la distinzione ha meno senso. Io comunque anche in queste condizioni sono un convinto sostenitore del bicameralismo differenziato. Ma non mi pare che ci siano le condizioni per una riflessione di questa portata. Mi limiterei al minimo indispensabile, nel senso già detto, senza farmi attrarre dal massimo possibile, difetto che hanno avuto le riforme Berlusconi e Renzi, entrambe bocciate dagli elettori.

 

Lei ha affrontato spesso, nei suoi interventi e anche nel suo ultimo libro ‘’ Insegna Creonte’’, il problema cruciale della selezione della classe dirigente. Saltati i meccanismi di selezione del passato – l’azione cattolica per i democristiani, le scuole di partito per comunisti e socialisti, la militanza sindacale, la ‘’gavetta’’ nelle amministrazioni locali – oggi come si seleziona il personale politico, a cominciare dai parlamentari? E a quali guasti ha portato l’assenza di quei meccanismi?

È stato recentemente pubblicato a cura di Andrea Merlotti un ‘interessante raccolta di studi “Paggi e paggerie nelle corti italiane. Educare all’arte del comando.” Il volume si occupa a fondo della formazione delle classi dirigenti dal Cinquecento sino a metà Ottocento, quando la formazione spettava alle Corti e le famiglie aristocratiche mandavano a corte i propri figli per fare i paggi del sovrano, imparando innanzitutto a servire e quindi a comandare. Nella seconda metà dell’Ottocento, con la crisi delle vecchie aristocrazie, c’è un ricambio: compaiono i ceti possidenti e gli esponenti della borghesia delle professioni, avvocati soprattutto. Dalla fine dell’Ottocento sino alla fine del Novecento, per un secolo circa, un altro ricambio: le classi dirigenti sono prevalentemente selezionate in modo organizzato dai movimenti di massa, partiti, sindacati, organizzazioni imprenditoriali, associazionismo cattolico. Oggi in linea di massima si è esaurito l’accesso organizzato. Dopo la separazione dei partiti dalla società, a partire dal “dopoMoro”, si é manifestata una sorta di selezione “accidentale”, spesso fondata sulla vicinanza al capo, sulla popolarità, o su elezioni primarie, spesso discutibili nelle loro modalità di svolgimento. Ma questo tipo di selezione non è necessariamente negativa. Ho conosciuto infatti tanto in questa legislatura quanto nelle precedenti molti ottimi parlamentari.  Oggi c’è l’esigenza di recuperare la dimensione pedagogica della politica. Perciò mi permetto di richiamare “Pedagogia e politica” una serie di saggi curata da Pietrangelo Buttafuoco, Emiliana Mannese e da me.

 

Circa 20 anni fa La intervistai per la ‘’Nuova Antologia’’. Mi sono accorto, rileggendola, che molte domande che le feci allora gliele potrei riproporre ancora oggi, a riprova che in questo Paese sembra che tutto cambi ma molti problemi restano sempre gli stessi. Cosa pensa, ad esempio, del lessico politico e parlamentare, e ahimè anche giornalistico, che continua a registrare formule come Seconda Repubblica, e in taluni casi Terza Repubblica.

Queste formule sono scientificamente inesatte, ma il loro uso, se effettuato in sedi non scientifiche, resta fuorviante ma è peccato veniale. In realtà il lessico si è imbarbarito in via generale; si abusa di termini aggressivi o insultanti, per l’esigenza di creare audience e per la mancanza della cultura del rispetto. Non vanno ignorate infine le difficoltà che da tempo incontra la scuola media inferiore, come emerge da alcune gravi sgrammaticature. È ad esempio frequente leggere o ascoltare “di questo ne parleremo dopo”. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’avanzare della volgarità nella lingua dipende dalla cattiva educazione non dalla cattive conoscenze grammaticali o sintattiche.

 

Per i ruoli che ha svolto nel suo cursus honorum, ruoli di terzietà e di garanzia- presidente della Camera, presidente di commissione e di commissioni bicamerali-  Lei ha cercato di perseguire negli anni  una linea di pacificazione nazionale,  nel rispetto degli avversari. Qualche osservatore ipotizzò una sua destinazione al Colle.  Non è solo negli annali parlamentari ma anche nella memoria storica degli italiani il suo discorso d’insediamento in cui parlò dei ‘’ragazzi di Salò’’. Ci sono le condizioni oggi in Italia per una pacificazione nazionale, per un confronto su regole condivise, per quella che Moro chiamava la ‘’democrazia compiuta’’?

La nostra democrazia non è stata compiuta all’inizio, a partire dal dopoguerra, per via di due questioni paralizzanti, quella fascista e quella comunista. Non si poteva fare un governo con i fascisti per ragioni nazionali e non si poteva farlo con i comunisti per ragioni internazionali. Entrambi i warning hanno portato ad un monopartitismo coatto, quello della DC “obbligata a governare”. Oggi la incompiutezza dipende in parte dalla immaturità di alcuni protagonisti della vita politica e in parte dalla inadeguatezza dei meccanismi istituzionali. Inoltre dal 2000 al 2021 abbiamo avuto dodici crisi di governo, 26 elezioni, regionali, politiche ed europee, sei referendum abrogativi e quattro referendum costituzionali. Le forze politiche si sono contrapposte per vincere in 48 occasioni, in media una ogni 5 mesi. È mancato il tempo umano per riflettere e costruire. C’è certamente bisogno   di quella democrazia compiuta che lei giustamente richiama e che era una delle angosce di Aldo Moro. Io credo che siano necessari tre ingredienti: il rispetto reciproco per le persone, le istituzioni e le idee, il primato del governare nei confronti del vincere, il coraggio del cambiamento.

 

Qualcuno – il ministro Giorgetti – ha fatto L’ipotesi: Draghi al Quirinale che segue da vicino e orienta l’attività governativa tramite un presidente del Consiglio di assoluta fiducia. Una formula che qualcuno ha subito definito e liquidato (Zagrebelsky) come un semipresidenzialismo surrettizio, strisciante. Secondo lei potrebbe funzionare una cosa del genere?

Conosco l’acutezza intellettuale del ministro Giorgetti; si tratta probabilmente di un  paradosso. Credo  che una soluzione del genere faticherebbe a trovare un parlamento consenziente, anche se occorre dare stabilità al sistema politico. Basterebbe rileggere l’ordine del giorno a firma Tomaso Perassi del 4 settembre 1946, in Assemblea Costituente, che, pur introducendo il parlamentarismo, invocava esplicitamente dei correttivi: «La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare degenerazioni del parlamentarismo» (corsivi miei).

 

Secondo Lei, in questo momento cruciale per l’Italia, con il PNRR da attuare per far ripartire il Paese,  Draghi è più utile all’Italia da Palazzo Chigi o dal Quirinale?

La sua domanda contiene in sé la risposta. Mario Draghi può far bene dappertutto. Ciò che serve al Paese verrà deciso dalle forze politiche.

 

Sulla elezione del capo dello Stato la Costituzione indica chi sono i suoi grandi elettori (parlamentari e delegati regionali), fissa il quorum delle varie votazioni. Ma non c’è una parola sulle modalità con cui si debba scegliere, il che ha reso atipica e sui generis l’elezione presidenziale. Non lo trova strana questa mancanza di indicazione? Forse la ratio era: lasciare la scelta ai gruppi parlamentari. Ma di fatto se ne sono impossessati i partiti.

Si tratta di una scelta personalissima; i vertici dei partiti possono orientare, ma non possono garantire. Lo dimostra la storia delle elezioni al Quirinale; nel caso di Cossiga ci fu un patto tra DC e PC mentre nel caso di Ciampi fece aggio la sua autorevolezza, apprezzata da tutti. Negli altri casi non fu facile.

 

E a proposito dei partiti: data anche la degenerazione personalistica delle formazioni politiche, che comincia negli anni ’90 ma già si era manifestata negli anni ’80 con Craxi, non ritiene necessaria una riforma costituzionale dei partiti, delle regole, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione? Una delle tante riforme incompiute.

Machiavelli suggeriva che per il buon governo ci vogliono le buone leggi ma anche i buoni comportamenti. Nella scorsa legislatura una forza parlamentare si oppose ad una legge sui partiti. Io credo sia necessario definire per legge che cosa è un partito, anche per evitare alcuni equivoci giudiziari. Ma soprattutto occorre riprendere il tema del finanziamento della politica, sinora affrontato in modo ipocrita.

 

Lei ha sottolineato il valore delle minoranze in un sistema democratico. Questo ruolo delle minoranze si svolge meglio con una legge proporzionale o con un sistema maggioritario?

Certo, con un sistema proporzionale le minoranze hanno comunque una rappresentanza maggiore; ma il ruolo, più che dai numeri, dipende dalla capacità di leggere e interpretare le aspirazioni e i bisogni che non vengono rappresentati dalla maggioranza.

 

Per finire: anni fa, prima che assumesse ruoli istituzionali di garanzia, Lei è stato considerato colui che dettava la linea sulla giustizia, accusato di manovrare le Procure.  Accuse poi sepolte dal tempo. La riforma della giustizia potrà essere un motore di progresso e di crescita della società italiana. Ma, in termini di principi ispiratori, che cosa potrà far rinascere negli italiani la fiducia nel sistema giudiziario?

Devono cambiare i comportamenti dei magistrati, prima di ogni altra cosa. Litigi, dichiarazioni arroganti, libri scandalistici hanno fatto crollare la fiducia. Un rapporto di fiducia si ricostruisce cambiando i comportamenti. Le funzioni pubbliche, dice la Costituzione (art.54) vanno assolte con “disciplina e onore”. In molte recenti vicende della magistratura sono mancati entrambi. È necessaria una maggiore consapevolezza delle proprie responsabilità e sono necessari comportamenti adeguati a quelle responsabilità.

 

Scendendo su un piano più concreto, per esempio parlando del CSM?

Sul piano legislativo, sembra che si voglia cambiare il sistema elettorale per il CSM; non danneggia, ma non aiuta. Dal 1958 ad oggi si sono succedute sei leggi elettorali, senza alcun cambiamento effettivo nel rapporto tra centri di potere interno, magistrati e CSM.

 

Qual è la sua proposta?

Meglio pensare a un cambiamento radicale nel sistema di valutazione della professionalità e nel CSM per porre fine all’ attuale autoreferenzialità. Credo che occorrerebbe discutere della opportunità di un secondo esame, attitudinale, dopo  tre anni dal concorso di ammissione per valutare l’attività del magistrato concretamente, anche dal punto di vista dei rapporti con i mezzi di comunicazione, la polizia giudiziaria, gli avvocati, le parti, i colleghi. Della valutazione dovrebbe tenersi conto per l’attribuzione di responsabilità direttive.

 

E sui ricorsi contro le decisioni disciplinari si dovrebbe innovare?

A me sembra che debba istituirsi un’Alta Corte per giudicare dei ricorsi contro le decisioni disciplinari e i provvedimenti ammnistrativi non solo del CSM ma anche degli organi di governo interno di tutte le altre magistrature, amministrativa, contabile, militare e tributaria. In questo modo si supererebbe la grave tendenza all’autoreferenzialità, che è la ragione delle degenerazioni più gravi.

*direttore editoriale

 

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