“Una lotta impari”, il romanzo-rivelazione di Simona Nuvolari. Per stile, contenuti, orizzonte culturale è un’ “opera mondo”

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Questa è una intervista-recensione, cioè una recensione in forma d’intervista. O di dialogo. Questo spiega anche perché le domande a volte sono lunghe, e in certi casi non sembrano  nemmeno domande ma osservazioni o ipotesi critiche, perché, appunto, concepite come parti di una virtuale recensione. Credo che questa modalità possa essere più efficace per chi voglia accostarsi a questo libro di una lunghezza inconsueta, ma avvincente (l’ho letto in tre giorni e non ho smesso finché non sono arrivato all’ultima pagina). Inoltre, questa forma di recensione-intervista consente, tra l’altro,  di conoscere – in diretta! – il pensiero dell’autrice sulle questioni poste dall’intervistatore.

Simona Nuvolari, per cominciare: uno vede un libro di oltre 500 pagine, e parte già un moto di stupore nel lettore pigro, e di ammirazione in chi ama la lettura verso l’autrice: ma che coraggio ha avuto a scrivere un libro di così robusta mole, nell’era della semplificazione, della riduzione del discorso in “pillole”, nel tempo dei social che hanno provocato la ossificazione del linguaggio.

Non credevo che avrei scritto un libro lungo, quando ho cominciato, ma non mi sono posta problemi di lunghezza. Volevo lo spazio che sarebbe servito (whatever it takes!), e questo si poteva vedere solo strada facendo. Poi quando mi sono resa conto che veniva lungo, ho capito che questo ne avrebbe reso più difficile la pubblicazione, ma non potevo farci niente, finché non avessi finito. Dopo l’ho riletto e riletto cento volte, sempre tagliando, asciugando, non per ragioni editoriali, ma perché ero convinta che fosse nell’interesse del racconto renderlo il più compatto possibile, sfrondando il superfluo. Ma semplificare no, non potevo perché il racconto era nato anche per dire che le cose non sono affatto semplici.

La prima domanda comporta una curiosità, forse banale: quanto tempo ha impiegato a scrivere questo libro?

Ho cominciato nel 1993, e l’ho finito nel 2019.  Ma non ho lavorato di seguito, naturalmente! All’inizio non sapevo neanche che sarebbe stato un romanzo.  L’ho scritto alternando lunghi periodi di pausa in cui l’ho lasciato nel cassetto, altri in cui rileggevo, correggevo, limavo senza proseguire, altri in cui invece scrivevo continuativamente. E poi non sapevo come sarebbe andato a finire, anche se cominciava a prendere forma un disegno. A un certo punto addirittura non mi sembrava più che valesse la pena di portarlo a termine. Poi invece mi è sembrato di sì. In questo tira e molla sono passati molti anni. Poi nel 2020 ho aggiunto l’epilogo.

Una lotta impari è presentato come romanzo, ma sembra avere anche le caratteristiche, l’articolazione e la profondità del saggio. Del romanzo-saggio, date le numerose suggestioni culturali, filosofiche, i riferimenti alla storia, all’antropologia culturale, alla filosofia antica, alla psicoanalisi, all’arte contemporanea. Per non parlare poi delle numerose “finestre aperte” sulle tragedie del mondo, la globalizzazione selvaggia, la povertà, le disuguaglianze, le ingiustizie.

Personalmente lo sento come romanzo-romanzo, ossia la storia di una persona vista da fuori ma anche da dentro (o dal buco della serratura, come diceva Luce d’Eramo) in modo che il lettore possa riviverla. Siccome però questa persona è una lettrice accanita, una che quando ha un problema è portata a leggere tutto quello che trova sull’argomento, e a rimuginarci sopra, parlarne con le amiche, ecc., per forza seguendo la sua vita e i suoi interrogativi si finisce quasi per scrivere un saggio, ma il mio approccio è narrativo, non saggistico.

Il personaggio protagonista del romanzo è Marta. Una donna sensibile, fragile e tenace, che vive un personale problema – classificato come Doc (disturbo ossessivo compulsivo) legato alla fobia dello sporco, alla ossessione della pulizia, che la costringe a continui, compulsivi rituali igienici, nella solitudine e nella ostilità dei figli. Ma poi, nel dipanarsi delle pagine, secondo un andamento da romanzo giallo, Marta fa un viaggio a ritroso nella sua vita, una ricognizione psicologica esistenziale, per approdare alla fine alla conclusione che il suo problema era diventato un problema sociale. E con questo è attenuato il senso di colpa che si portava dentro.

Più esattamente approda alla constatazione che il suo problema personale resta personale, con una storia individuale, ma riflette anche – e reagisce a –  problemi  e malesseri più grandi di lei, che sono sociali e collettivi.  Questo non attenua molto il senso di colpa, ossìa la sensazione di essere capitati e di restare dalla parte del torto, sia pure collettivamente, ma ridimensiona l’ansia per ciò che puoi fare tu qui e ora, perché quando il problema è troppo vasto non ce la puoi fare a risolverlo con le tue sole forze; qualunque comportamento adotti, non sarà mai determinante e risolutivo.  Bisogna anche dire che il senso di colpa personale  intanto lei  se lo è molto chiarito e ridimensionato  nel riconsiderare le vicende della sua giovinezza.

Non a caso lei nell’esergo della prima parte cita una frase di Kafka, tratta dalle sue conversazioni con Gustav Janouch. La riporto perché è illuminante.“Nulla resta attaccato all’anima quanto un senso di colpa infondato perché – proprio perché non ha alcun fondamento – non c’è penitenza o riparazione che permetta di sbarazzarsene”. È anche il senso di colpa (o il timore) che avevano gli antichi quando temevano l’invidia degli dei, o quando si teme che ci possa accadere qualcosa perché le cose stanno andando troppo bene nella vita? Possiamo dire che in un certo senso questo suo romanzo è un itinerario di liberazione dal senso di colpa? Prima soggettivo poi sociale?

Lei coglie nel segno quando parla del timore per l’invidia degli dèi verso i troppo fortunati, di cui parlavano gli antichi, perché nella storia di Marta una componente fondamentale è proprio il tentativo di scongiurare la mala sorte che può colpirla da un momento all’altro, togliendole ciò che ha di più caro: e lo fa pagando pegno attraverso il suo affannoso pulire che è anche una forma di penitenza preventiva anziché punitiva.

Sì, certamente si può dire che il romanzo è un itinerario di liberazione da un senso di colpa che è eccessivo, spropositato, e quindi infondato, e quindi inestinguibile, (un senso di colpa che  in fondo è il rovescio di un delirio di onnipotenza, come dice Margot verso la fine), per acquisire il senso della responsabilità che è limitata, perché non siamo onnipotenti, e che non è mai solo individuale ma anche collettiva. Ma questa consapevolezza non è un’assoluzione, nel senso che “mal comune mezzo gaudio” e quindi ce ne laviamo le mani: è la consapevolezza che dove la responsabilità  è collettiva allora bisogna reagire anche a livello collettivo, insieme agli altri.

Marta è ossessionata dallo sporco. Nel libro si discute molto sul senso anche simbolico dello sporco, e a un certo punto lo sporco diventa una specie di lente d’ingrandimento o, se vuole, una chiave interpretativa, per capire il mondo e le sue turpitudini, l’immondizia che si ammonticchia nelle città, la gente che fruga nei cassonetti, le baraccopoli, i quartieri slum. Lo sporco diventa un fenomeno di disordine, una rottura dell’ordine sistematico.

Esattamente. È per questo che come osserva l’antropologa Douglas, lo “sporco” intollerabile nelle varie civiltà umane varia molto, ma è sentito sempre come pericolo, come minaccia perché confonde l’ordine concettuale e reale del mondo, le distinzioni essenziali tra le cose. Una rottura dell’ordo et connexio rerum.

Infatti, sempre a proposito dello sporco, Lei cita, ancora nell’esergo iniziale, un pensiero di Mary Douglas, tratto dal suo saggio “Purezza e pericolo”. La frase è questa: “Riflettere sullo sporco comporta la riflessione sul rapporto tra l’ordine e il disordine, l’essere e il non essere, il formale e l’informale, la vita e la morte”. Se questo è vero, il problema di Marta, che con le sue manie iper igienistiche crea anche problemi in famiglia, ai figli che si ribellano, al marito che tollera ma dissente, diventa una metafora di un problema sociale, che lo trascende e che esiste nelle forme vistose dell’inferno urbano (periferie, aree estese di miseria, di fame, come in Africa; nei rapporti tra uomo e donna). Leggendo il suo romanzo, non ci vuole molto a capire che il caso clinico che descrive è solo in apparenza il cuore del libro (sarebbe un grave abbaglio pensarlo). Il romanzo ha diversi livelli di lettura, mi richiama l’idea dei cerchi concentrici, e tra loro comunicanti.

 

 

Douglas

 

 

Certo. Anzi non direi che è una metafora ma piuttosto un rispecchiamento, una ripercussione individuale, in una persona fortemente incline a responsabilizzarsi, di un malessere sociale molto pervasivo e invasivo anche se non immediatamente evidente. A Marta ci vuole molto tempo per capire che c’è un rapporto tra il suo disagio e quello del mondo. Per questo non potrà mai pretendere di guarire del tutto, se il mondo resta com’è.

Ora mi permetta di entrare nella sua officina di scrittrice. Nella sua tecnica narrativa. Il romanzo ha vari livelli di letture: lei racconta la vita e i travagli di Marta. All’interno di questa narrazione, si inserisce la protagonista che diventa in tanti passaggi l’io narrante, e per non confondere il lettore, le due modalità narrative sono scritte con un carattere tipografico diverso. C’è una tecnica di montaggio quasi cinematografico, con un frequente uso dei flash back. E poi c’è un sapiente uso del dialogo, di un tipico dialogo platonico, dalla logica stringente.Un uso del monologo interiore, del flusso di coscienza. Poi la cura dei dettagli, quasi ingranditi al microscopio dello sguardo osservatore. Alcuni brani del libro hanno l’andamento di un atto teatrale, di un piccolo racconto a sé. Ha qualche modello a cui si è ispirata? Nel suo libro c’è l’eco della grande letteratura europea (Proust per le descrizioni e le atmosfere, Joyce per la tecnica narrativa, Kafka per il senso dell’alienazione e della colpa)

 

 

Proust

 

 

Non mi sono ispirata a nessun modello. Ho cercato solo di volta in volta di essere più aderente possibile a ciò che avevo in mente e volevo far sentire al lettore come se l’avesse presente lui.  Per questo ho cambiato frequentemente modalità, senza privilegiarne nessuna e cercando a naso quella che serviva meglio al momento. Tutto quello che posso dire che è che per tutta la vita ho letto moltissimo, intensamente, e  quindi ho anche assorbito  molto da tutte queste letture, quelle che lei cita, Proust, Joyce, Kafka, ma anche tanti altri , e non c’è da meravigliarsi che l’eco di uno o dell’altro possa risuonare a chi legge.

 

 

Joyce

 

 

Senza che io l’abbia fatto apposta, posso essermi appropriata di diversi modi di raccontare che mi sono rimasti dentro e che vengono fuori quando cerco “le parole per dirlo”.

Di questo libro colpisce lo stile, la scrittura fluviale e avvolgente, e insieme esatta, in certi casi quasi chirurgica. Dico fluviale, perché il suo romanzo mi appare come un fiume che attraversa vari paesaggi umani, sociali, la solitudine, la sofferenza, ma anche la forza di lottare, di sperare. E la scrittura è al tempo stesso poetica e piena di colore, come in certe descrizioni di paesaggi visitati durante i viaggi per il mondo che Marta fa. Ma c’è una curiosità in più: ho notato la presenza di frasi che sono dei perfetti endecasillabi. In un solo periodo ne ho contati addirittura tre. Una prosa quindi anche musicale. Avrà fatto caso? Forse scrive poesie anche? Questo forse spiegherebbe la cosa. D’Annunzio scrisse una volta che a forza di poetare scriveva in endecasillabi anche la lista per la spesa.

Mi permetta che gliene indichi alcuni di questi endecasillabi che mi hanno colpito. Ne ho annotati tanti, ma ne cito solo una parte:

Le loro tremule mani uncinate;oscuramente intesi a proteggere;

grossi fiori di cardo senza stelo;

la nebbia e le pioggerelle perdute;

un tremolio di scaglie luccicanti;

sulla terrazza affacciata sul verde;

questo aspro colloquio con la morte;

la malinconia inafferrabile;

megalomania immaginifica;

meglio uno strappo che uno stillicidio.

È lei secondo me che ha un orecchio poetico esercitato e perciò riconosce gli endecasillabi! I miei sono del tutto involontari. Io non scrivo poesie da quando avevo 18 anni, e anche allora eccezionalmente. Credo di avere scritto in tutto cinque o sei poesie, e dopo averci lavorato su, ho capito che non era quella la mia forma di espressione.

No, io scrivo frasi, frasi anche lunghe, in cui non inseguo un ritmo, ma inseguo le cose, le immagini, il loro divenire. Per cui se risulta che, come Lei mi fa notare, queste frasi hanno anche un ritmo musicale, io sono la prima a restarne stupita.

Leggendo il suo libro ho respirato una certa aria kafkiana. Mi spiego in che senso: c’è la percezione di qualcosa di misterioso, di non risolto che incombe su Marta che cerca di risalire faticosamente ma tenacemente alle eventuali sorgenti del suo malessere, di cui lei è la prima ad essere consapevole. Questo senso di colpa quasi metafisica che rende lo stesso romanzo un viaggio all’interno dell’anima e del mondo che incuriosisce fino al termine.

Infatti il metafisico senso di colpa kafkiano per il fatto stesso di essere al mondo – che poi Kafka stesso, come abbiamo visto, sente essere infondato e quindi incancellabile – si salda alla fine col senso di colpa collettiva di cui parla Camus: il mondo è fatto in modo tale che è estremamente difficile, quasi impossibile non far del male a qualcuno senza volerlo e senza neanche accorgersene, se non si sta molto attenti: non per il fatto di essere al mondo, ma per come è fatto il mondo. Oscillando tra questi due poli, si cerca di vivere… liberarsi interamente dal senso di colpa, per una persona cosciente, è impossibile. Ma è possibile non farsene schiacciare, riconoscendo i propri – enormi – limiti.

 

 

Kafka

 

 

Per confortarsi a un certo punto Marta cita un personaggio – lo stesso Kafka – che si lavava tante volte al giorno. E anche Majakovskij usava certi rituali igienici compulsivi. Non so se ha visto il film Esterno Notte di Bellocchio: Moro, alla figlia che era rientrata a casa, dice: ti sei lavata le mani? E poi glielo ripete. Non risulta che Moro avesse particolari fobie, tranne quella dei viaggi in aereo. In questo lavarsi le mani, che farebbe pensare a Pilato, c’è una valenza simbolica innegabile, un segno di pulizia morale.

Kafka si lavava spesso le mani, dice Janouch, anche per rispetto verso il prossimo, sapendo di essere malato e contagioso; Majakovskij invece era proprio fissato con certi tipi di sporco, come Marta. Non so perché Bellocchio abbia messo nel film quella frase, ma, che diventi una mania compulsiva o no, igienistica o no, la valenza simbolica del lavarsi le mani è enorme e universale, in moltissime culture. Moro poi era un cattolico, e aveva per forza in testa il “Lavabo inter innocentes manus meas”. E magari era anche lui un po’ iper-igienista, chi lo sa? Le due cose possono andare assai bene insieme. Scrupoli materiali che rispecchiano scrupoli morali e viceversa.

A un certo punto lei riferendosi a Manzoni lo definisce “sempiterno”. In che senso? Io nel libro ho notato un che di manzoniano, per quanto riguarda la raffinata tecnica psicologica di descrivere il variare e l’evolversi delle emozioni, degli stati d’animo. La notte del travaglio di Marta che decide lo strappo con la religione, mi ha ricordato, per converso, la notte dell’Innominato nei Promessi Sposi. Che gliene pare?

Se glielo ha ricordato, probabilmente è perché quella dell’Innominato è una notte decisiva per la sua fede ma nel senso opposto. Io però nel raccontare la notte di Marta non ci ho mai pensato, assolutamente.

Ho una grande ammirazione per Manzoni come ce l’ho per Tolstoj, ma non è mai stato un mio autore di riferimento intimo, come lo è stato invece Dostojevskij, in particolare per lo scavo psicologico (se non è troppo ridicolo l’accostamento con giganti di quella portata).

Nel romanzo mi riferisco a Manzoni come “sempiterno” un po’ scherzosamente, perché col farcelo leggere così presto, a 14, 15 anni, e  analizzare in tutte le salse a dritto e rovescio come si faceva una volta a scuola, si finiva col fargli un cattivo servizio, renderlo un monumento letterario sempre incombente, di cui alla fine non se ne può più. Per cui poi ci si stupisce quando lo si riscopre da grandi e si dice: accidenti, però ci coglieva!

Posso continuare il gioco della ricerca, più che delle ipotetiche fonti, delle suggestioni che il suo libro suscita. La madre vieta a Marta certi comportamenti (uscire col ragazzo, il rischio di restare incinta, andare a ballare ecc) e la figlia le ricorda che le sta proibendo cose per le quali lei quand’era ragazza protestava a sua volta con la madre. Mi sovviene il Piccolo Principe e un pensiero: gli adulti si dimenticano di essere stati bambini (o ragazzi).

Ci può giurare che se lo dimenticano. Si dimenticano come era essere bambini.

Il piccolo principe è un libro delizioso e profondo che mi è carissimo, ma mi sento di escludere che sia tra le fonti di quell’episodio. La madre di Marta non ha dimenticato come pensava da ragazza, ma ora si immedesima nella madre, ha cambiato ruolo.

In un passaggio del libro, uno specialista spiega a Marta come certi meccanismi mentali che dovrebbero essere automatici, per un difetto organico del cervello, vanno invece a ingolfare l’attività cosciente. E lei commenta: come il millepiedi, che si inceppò quando gli chiesero come faceva a camminare con tutti quei piedi. (Lo fecero “pensare”). Questa circostanza mi ha ricordato un’analoga reazione di Zeno Cosini (nella “Coscienza di Zeno”): Svevo racconta che il protagonista, quando seppe che per muovere il ginocchio si mettevano in moto decine di muscoli, cominciò a zoppicare.

La reazione è senza dubbio la stessa, ma io non avevo in mente Zeno Cosini, ma solo il millepiedi anonimo di cui ho sentito tante volte raccontare.

Il romanzo, in numerosi passaggi, sembra un cenacolo filosofico e psicologico. Si discute, si obietta, si controbatte, a volte è la stessa Marta che dialoga con se stessa e si contraddice e confuta da sola. Si affrontano questioni fondamentali, come la coscienza, l’inconscio, l’io individuale in rapporto al sociale. Si richiamano, tra gli altri,  autori come Dante, molto amato a giudicare dalle citazioni, come del resto Camus; poi Nietzsche, Freud, Eliot, Lucrezio, Giovenale, Singer, Calvino, Pavese, Mary Douglas, Graham Greene, Majakovsckij, Tucidide. Marta è di certo una intellettuale attrezzata, che non smette di leggere, e che è in continuo rimuginamento interiore, anche quando è al lavoro o quando è in casa. Forse, è una battuta,  ragiona troppo, pensa troppo? O forse questa sua dote è quella che alla fine la salva, dopo aver fatto un “viaggio nella vertigine”, assillata dal senso di colpa con un pensiero dominante che la perseguita davanti alle soluzioni facili: “sarebbe troppo comodo”, e quindi bisogna espiare?

 

 

Calvino

 

Freud

 

 

Ci può aggiungere anche Orazio e  Dorothy Parker! Personalmente non credo che si possa ragionare troppo, pensare troppo; piuttosto, spesso si ragiona girando a vuoto, e questo non perché si pensa troppo ma perché la soluzione è difficile o perché si sbaglia strada.

Poi magari Marta ingigantisce problemi futili e trascura quelli veri, spacca il capello in quattro, pesta l’acqua nel mortaio, ma questo non è pensare troppo, è pensare male. Naturalmente, come ammonisce il millepiedi, a pensare a quello che fai ci si imbroglia; ma se non ci pensi, magari finisci dritto nel fosso.

In ogni modo Marta è fatta così, pensa come può, come riesce, non è una filosofa, fa del suo meglio. il suo ostinato rimuginare l’accompagna dovunque e secondo me da una parte le complica ulteriormente la vita, dall’altra l’aiuta a trovare appigli, a non arrendersi.

Non le farò il torto di chiederle se il libro ha una morale, o qual è il senso sostanziale del romanzo. Posso però azzardarne uno io: chi soffre è solo, isolato, incompreso ma non ci si salva da soli, ma insieme. Condivide?

Condivido assolutamente. Non è detto che ci si salvi, a dire il vero, ma se ci si salva certo non è da soli. Tuttavia io mi sento a disagio quando sento parlare di senso sostanziale di un romanzo, come se ce ne fosse uno autentico, di cui l’autrice ha il monopolio. In realtà un romanzo ha tutti i sensi che i lettori riescono a trovargli. E a volte sono i lettori che spiegano il senso del romanzo agli autori.

Per il titolo “una lotta impari”, potremmo citare un titolo di un saggio di Umberto Eco, Opera aperta. Aperta alle interpretazioni del lettore. È aperto anche il titolo? Ognuno ha una lotta impari da condurre durante il suo progetto di vita? Quell’ognuno può essere la persona, un Paese, uno stato, il mondo stesso, in lotta impari con i mali che lo stanno distruggendo (l’agricoltura intensiva, i cambiamenti climatici, le scandalose disuguaglianze sociali, i pericoli dell’urbanizzazione selvaggia che vedrà nel 2050 due persone su tre vivere nelle megalopoli)? Queste domande che le rivolgo mi vengono anche dalla mia convinzione che il suo romanzo possa richiamare quel tipo di libri che il noto studioso di letteratura  Franco Moretti ha definito “opera mondo”.

Sì, certo, anche l’interpretazione del titolo è aperta. Quella di Marta è una lotta impari contro un avversario che la sorpassa e a cui però non si rassegna a dare il proprio consenso. Un avversario che, come capiamo a poco a poco, va oltre l’oggetto specifico delle sue paure: al limite è una lotta simbolica, e malgrado tutto non completamente sprecata o ridicola o patetica, proprio perché simbolica. Anche sul piano reale, chiunque può avere una lotta impari di condurre. Ma per fortuna non è detto che ogni nostra lotta sia impari, sempre. Al contrario molte lotte che abbiamo di fronte, come quelle che cita, si possono vincere, si potrebbero vincere se si unissero le forze nella stessa direzione.

Marta è una donna che non si chiude nel suo problema ossessivo: lo vive certo per conto suo, e non lo comunica fuori dalla famiglia, solo a qualche amica o amico. Ma, ragionatrice com’è, si proietta sul futuro e si pone domande filosofiche: sapere che cosa succederà “dopo” che non ci saremo più è forse troppo, ma almeno si vorrebbe sapere se il mondo continua.  Pensieri come questi fanno di Marta una figura che accende la mente.

Marta è convintissima che il mondo continuerà senza di noi, e come a moltissimi di noi le dispiace non poterci essere almeno quel tanto da sapere come continua. Ma non crede nella sopravvivenza oltre la morte e quindi si deve tenere quel dispiacere senza consolazione: non mi sembra un pensiero che accenda la mente, purtroppo.

Il suo libro stimola a leggere tanti altri libri, e basterebbe già questo per parlarne bene, a parte ovviamente le sue indubbie qualità. (mentre lo leggevo, ho ordinato il libro di Mary Douglas, e quello di Graham Greene e i saggi letterari di Camus). C’è un ridimensionamento di alcuni miti culturali e scientifici che hanno imperversato nella nostra vita di occidentali: la psicoanalisi, per esempio, il diverso senso della morte rispetto agli orientali; il cruccio di dover lasciare traccia di sé, come se fossimo – dice Marta – “il sale della Terra”. Da questo libro mi pare emerga un certo scetticismo verso l’impostazione della terapia psicoanalitica che lavora, con la sua teoria dell’inconscio, sul nostro senso di colpa, sul rimosso. E mi pare più aperta verso la terapia cognitiva. Ma a questo punto non aiuta di più la filosofia?  Non so se ha presente un libro di qualche anno fa: Platone è meglio del Prozac (Platone, per indicare l’approccio filosofico ai problemi, invece di quello psicoterapeutico).

Platone è meglio del Prozac è un bellissimo titolo, io non me la sento però di sottoscriverlo.

Ci sono depressioni gravi in cui solo il Prozac aiuta e Platone arriva fuori tempo massimo, ammesso e non concesso che potesse essere utile se preso in tempo.

Certo sono contraria alla medicalizzazione dell’infelicità umana e a soffocare il dolore morale coi farmaci come se fosse una malattia. Sappiamo tutti che chi non ha mai sofferto non capisce niente in modo davvero profondo.
Ma i disturbi psicologici esistono veramente e hanno cause in gran parte organiche, in parte funzionano come condizionamenti che non si spiegano col rimosso e non se ne vanno se il rimosso diventa cosciente. Marta ha davvero un DOC, anche se complicato da un passato personale predisponente e da una serie di annessi e connessi sociali che vanno oltre la sua persona. E  terapie per il DOC efficaci al 100% non ce ne sono ancora. Quella cognitiva-comportamentale dà i risultati migliori, ma è lontana dall’essere facile e risolutiva. Si può però circoscrivere il disturbo, smontarne il meccanismo, limitarne i danni, impedire che si allarghi, conoscendone i trucchi e i trabocchetti.

La filosofia è una grande risorsa contro il male di vivere per chi non sta troppo male, ma primum vivere, deinde philosophari. Del resto Marta da giovane si è aiutata con la sola filosofia, a sostenere il confronto con la morte, per questo in fondo ha rifiutato la psicoanalisi (allora non c’erano tante psicoterapie); Platone può essere entusiasmante ma magis amica veritas (e poi era un tremendo reazionario). Lei soprattutto si è appoggiata alla filosofia esistenzialista, ma a un certo punto non ha retto di fronte a una pressione che con la nascita dei figli si è fatta troppo forte. La buona filosofia deve saper riconoscere quando bisogna lasciare il campo alla psichiatria. Purtroppo la psichiatria è ancora molto lontana dal saper curare a fondo questi mali.

Ora gliela faccio io una domanda filosofica; secondo Lei il senso di colpa è connaturato alla coscienza umana? Non parlo del profilo religioso, del peccato originale (per chi ci crede) ma proprio dell’uomo contemporaneo. Lei cita De André: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

Penso che il senso di colpa si sia sviluppato insieme alla coscienza umana e abbia accompagnato tutta l’evoluzione dell’uomo. Nella misura in cui ci si accorge di un errore, si rimpiange di averlo fatto e si pensa che si sarebbe potuto evitare. La coscienza è anche coscienza di aver sbagliato e di poter sbagliare ottenendo un risultato assai diverso da quello voluto. Allora subentra in qualche misura il senso di colpa.  Non c’è bisogno di una dimensione religiosa per sviluppare un senso di colpa.

Nel mondo contemporaneo si è fatto strada, insieme a una maggiore consapevolezza dei legami sociali, il senso di una corresponsabilità collettiva per come è organizzata la società di cui facciamo parte, e per i privilegi di cui godiamo: anche se nessun singolo è responsabile individualmente di tutto, nessuno è totalmente innocente. Di questo cantava De André, e Albert Camus nella Peste lo aveva detto chiaramente, il mondo è fatto in modo che anche se stiamo attenti, e anche se non vorremmo, contribuiamo a provocare la sofferenza e la morte altrui. Allora non basta non averlo voluto per sentirsi assolti.

A proposito di Camus, autore caro a Marta (e suppongo anche a Lei) una sua frase dice: “Meglio ardere che scomparire”. Saltando indietro di secoli, la poetessa Gaspara Stampa ha scritto: “Vivere ardendo e non sentire il male”. Possono integrarsi questi due punti di vista della vita?

 

 

Camus

 

 

“Meglio ardere che scomparire” credo – ma posso sbagliare – si riferisse al fatto che l’inferno sarebbe sempre meglio dell’annientamento, della morte totale che attende i non credenti. Gaspara Stampa non pensava ad ardere dopo la morte, ma in questa vita, di passione non ricambiata. Non mi sembra che siano punti di vista incompatibili. Però alla fine non bisogna presumere troppo da se stessi. Sulla durata, non sentire il male è difficile, e abbiamo bisogno anche di tregue. Gaspara purtroppo è morta giovane e non poteva saperlo. Poi chi lo sa, forse è meglio scomparire che ardere eternamente.

Infatti, a un certo punto, verso la fine del romanzo, Marta – una donna pensatrice e dal gusto artistico raffinato (va a mostre, ci parla di Botticelli, Paolo Uccello, e anche dell’arte povera, in cui trova il paradosso di un’arte che  assume la miseria come oggetto estetico e poi se ne fa ricco mercato),  a proposito del dover lasciare traccia dice: La cosa che più conta non è lasciarsi qualcosa dietro, ma vivere e morire facendo il più possibile quello che ci va di fare davvero, senza farsi confondere da quello che possono pensare e volere da te. In altre parole: fare fino all’ultimo la tua vita e non quella di un altro. Può essere questo il messaggio finale del libro, ma non voglio semplificare con una formula

Veramente io sono piuttosto cauta coi messaggi finali. Per me è un pensiero, uno dei tanti, non certo originale (“diventa ciò che sei”, ecc.), anche se non farsi confondere su ciò che si è davvero è più difficile di quanto si pensi. Ecco, lo vedo piuttosto come uno dei frammenti con cui “ho puntellato le mie rovine”, come dice Eliot alla fine di La terra devastata.

Per concludere questo dialogo, Una domanda, lo ammetto, un po’ impertinente, anzi due. La prima; ha avuto il dubbio che in certe parti del libro il discorso sia andato dilatandosi oltre misura, per esempio la parte finale sul Covid? Certo, si salda perfettamente al problema vissuto da Marta (l’iper igienismo, che da necessità sua individuale è diventato un obbligo di massa, e quindi per lei un fatto liberatorio), ma tutte quelle pagine di cronaca del contagio in Italia e all’estero forse danno una impressione di ridondanza. Condivide? Naturalmente se le ha scritte ci sarà una ragione più profonda.

Il dubbio che in certe parti del libro il discorso si sia dilatato troppo mi è venuto molte volte e mi è rimasto, nonostante abbia fatto tutto il possibile, come ho detto, per asciugare e sfrondare il testo, tagliando molto. Indubbiamente è un mio limite non essere riuscita a farlo di più, o a scrivere diversamente. Ma tra le parti superflue secondo me non ci può essere l’epilogo sul Covid. Quello era essenziale per ragioni narrative, era impossibile che avendo raccontato la storia di una che ha paura di contaminarsi mi fermassi a prima del Covid, avendo la possibilità di includere questo evento straordinario di contaminazione universale. Può essere che mi sia dilungata troppo, ma il senso di ridondanza a mio avviso viene perché il lettore, che a quel punto è già saturo dell’argomento, lo avverte come pleonastico in quanto si dice: ma queste cose si sanno già, le abbiamo vissute giorno per giorno, che bisogno c’è di dirle qui! Invece uno scrive anche per quelli che non avranno vissuto quei giorni, soprattutto per quelli. E già adesso del resto, i nostri ricordi di quel periodo incominciano a confondersi, cosa è venuto prima, cosa dopo. Per questo ho scelto quest’andamento cronachistico, perché le reazioni di Marta si inserissero nel contesto dei fatti che giorno per giorno la colpiscono, un po’ per volta. E si tratta di fatti eccezionali, che oggi ci sembrano scontati, ma non lo sono affatto, e che potrebbero sembrare incredibili a chi non li avesse vissuti.

L’altra domanda: lei alla fine del libro ringrazia alcune persone indicandole con le iniziali. Vuole mantenere l’anonimato? Non sarebbe bello che un così bel libro venisse dedicato a persone fatte conoscere al lettore?

Sarebbe bello, ma appunto, ho deciso di mantenere il più possibile l’anonimato, e i nomi per intero sarebbero come dei puntatori ulteriori verso la mia persona e la mia famiglia. Questo è chiaramente un libro di ispirazione autobiografica e io non intendo coinvolgere e “mettere in piazza”, più di quanto già non abbia fatto, le persone che mi sono vicine.

Anche perché  per me è vitale che l’attenzione del lettore vada al testo, che si regge di per sé, e non a verificare se e quanto i personaggi si discostino  da quelli reali.

Mi diverte pensare che magari tra cinquant’anni, caso mai il romanzo interessasse ancora qualcuno, i miei eredi potranno far scrivere i nomi dei ringraziati per intero, dando così a ciascuno il suo (ma ne vorrei aggiungere anche altri!), e i curiosi o gli studiosi di letteratura potranno ricostruire, come è loro mestiere, le situazioni reali che hanno dato origine al libro.

 

Mario NanniDirettore editoriale

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