Tangentopoli, quel giorno che portò al “Grande Crollo”

30 anni dall’inizio di Tangentopoli. La decapitazione di una classe dirigente. Come avviene nei terremoti: all’inizio pare sia caduto qualche cornicione, poi si rivela il disastro. Il ruolo della magistratura ieri e oggi.

Politica

Quel lunedì 17 febbraio 1992, quando poco dopo le 17.30, nel suo ufficio al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa venne arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di lire appena consegnatagli da un giovane imprenditore, Luca Magni, che aveva messo a punto l’operazione per “incastrare” Chiesa con l’allora sostituto procuratore a Milano Antonio Di Pietro e il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, nessuno immaginava cosa sarebbe successo.

Il gesto di Chiesa – un “mariuolo” lo definirà Bettino Craxi – di mettere nel cassetto “la dazione”, sui giornali del giorno dopo sarebbe stato valutato come l’ennesimo atto di corruzione, la tristezza di un fenomeno sempre più allargato ma in definitiva e proprio per questo comune e perfino banale.

Nessuno cioè poteva immaginare che da lì a poco sarebbe cominciata una devastante slavina che in pochi mesi avrebbe portato alla dissoluzione dei partiti storici, quelli usciti dalla Resistenza; all’emergere di nuove formazioni politiche e nuove leadership come quella di Silvio Berlusconi tale da modificare per sempre la comunicazione e in definitiva il modo stesso di fare politica. 

Nessuno poteva credere che l’Italia avrebbe archiviato un’intera fase storica non per un processo di rigenerazione della classe politica né tantomeno per un impulso di autoriforma politico-istituzionale quanto per un fomento di tracimazione fino al sovvertimento dell’equilibrio di sistema mediante la primazia del potere giudiziario su quello politico, con effetti che durano ancora oggi e che fanno del nostro Paese un “unicum”.

Al punto che trent’anni dopo la Ue, per poter approvare l’invio delle risorse del Pnrr ha dovuto chiedere, come atto preliminare e pegno di fiducia, la riforma della giustizia che a breve il Parlamento, sotto l’impulso del presidente del Consiglio Mario Draghi e della Guardasigilli Marta Cartabia, dovrà votare.

Cos’è rimasto di quella stagione sei lustri dopo e un’infinita scia di scontri, polemiche, interventi costituzionali come l’abolizione dell’autorizzazione a procedere e il ribaltamento della presunzione di innocenza in presunzione di colpevolezza, e perfino drammatici suicidi come quel deputato socialista Sergio Moroni,  che in una lettera inviata all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, scrisse che “quando la parola è flebile, non resta che il gesto”. Quello estremo.

Domande obbligate

Al dunque. L’inchiesta Mani Pulite della Procura di Milano guidata dal recentemente scomparso Saverio Borrelli e il rovesciamento di un intero equilibrio politico-istituzionale sotto l’urto di Tangentopoli ha migliorato o no il Paese? Ha sanato o almeno ridimensionato la piaga della corruzione? Ha consolidato il rapporto tra poteri dello Stato e offerto più garanzie ai cittadini? Sono domande obbligate e la risposta è complicata. 

Ma se vogliamo essere onesti intellettualmente, la risposta non può essere positiva: anzi. Trent’anni dopo la magistratura che, agli occhi dei cittadini e sotto la pressione di un’informazione pronta a squassare la cittadella del potere anche a costo di mettere la sordina ai doveri di approfondimento e tutela dei diritti costituzionali degli inquisiti, era “la mano di dio” salvifica e purificatrice, è oggi più che mai svilita nel suo ruolo e sotto accusa a causa di scandali come la vicenda Palamara.

In generale è venuta meno – nonostante l’impegno di tantissimi magistrati che lavorano in silenzio e si limitano ad applicare le leggi come è loro dovere – la fiducia dei cittadini nel “servizio giustizia” al punto che nel suo discorso di insediamento dopo l’elezione bis, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha dovuto richiamare la necessità di “un profondo processo riformatore”. 

Come? Mettendo mano al ruolo e ai compiti del Consiglio superiore della magistratura e con altri interventi affinché i cittadini – sono sempre parole del capo dello Stato – possano “nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili”.

Il fosco biennio 1992-1993

In quei giorni terribili del biennio 1992-1993 molte garanzie costituzionali risultarono affievolite e la carcerazione preventiva diventò l’arma più affilata in mano agli inquirenti per ottenere risultati. Ma l’inchiesta guidata da Antonio Di Pietro – che Silvio Berlusconi, all’indomani della vittoria elettorale voleva titolare dell’Interno del suo primo governo, e che poi finì a fare il ministro dei Lavori Pubblici nel primo Esecutivo di Romano Prodi – contribuì a sgretolare il sistema dei partiti che era diventato un involucro vuoto roso all’interno dalle termiti della consunzione e al contempo allargatosi fino a occupare ogni spazio possibile, alimentando una partitocrazia che risultava insopportabile agli occhi degli italiani.

Dunque sono due i fenomeni che vanno valutati per almeno provare a dare un giudizio non esaustivo ma necessario su un passaggio così determinante della vicenda politico-giudiziaria dell’Italia. Da un lato, il progressivo disfacimento dei partiti come collettori delle istanze sociali. Il neo presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, ricorda come nell’immediato dopoguerra i partiti erano i referenti popolari di esigenze primarie come, a Milano, l’erogazione dell’acqua. 

Nei decenni successivi hanno invaso l’ambito pubblico e nel momento in cui le barriere ideologiche sono venute meno con la caduta del Muro di Berlino, sono definitivamente entrati in crisi. 

Come osserva la storica Simona Colarizi “un magma antidemocratico e qualunquista è sempre esistito in una democrazia giovane come l’Italia ma la responsabilità di averlo fatto lievitare pesa sulle forze politiche che hanno abbattuto la Prima Repubblica. Il lievito principale è stata la leggenda di una società politica malata in contrapposizione a un Paese sano, per quarant’anni dominato da forze politiche corrotte, colluse con la criminalità organizzata, colpevoli di aver dilapidato le risorse economiche e persino di avere tramato contro le istituzioni democratiche. Accuse infamanti, risuonate sul palcoscenico delle tv pubbliche e private, reati veri e propri contestati dai magistrati inquirenti, ingigantiti dalla stampa potente cassa di risonanza delle inchieste giudiziarie” (Passatopresente, Colarizi, Laterza editore). Un buco nero che ha inghiottito leader, apparati e forme di aggregazione democratica.

Il secondo fenomeno riguarda le toghe. L’obiettivo di dare un colpo mortale alla corruzione si è via via trasformato nella ricerca di una palingenesi sistemica che ha fatto esondare la magistratura dal suo alveo costituzionale, spesso sotto la spinta di movimenti che hanno inteso usare la leva giudiziaria per azzerare il quadro politico e prenderne il posto. 

Giustizialismo usato come leva di potere

Non tutta la magistratura, va detto, si è prestata all’operazione,  ma quella più politicizzata ha alimentato un corto circuito con i media in molti casi devastando la vita dei singoli, soprattutto se successivamente riconosciuti innocenti, poggiando sulla complicità di giornali alla ricerca della gogna giudiziaria. Il giustizialismo usato come leva per scalare il potere.

Due fenomeni devastanti tutt’altro che risolti in una spirale di transizione infinita del sistema, sullo sfondo dei quali si staglia una questione decisiva in qualunque architettura democratica ma che ipocrisia, strumentalità, convenienza non hanno mai permesso di affrontare in modo equilibrato. 

Si tratta del finanziamento pubblico dei partiti e della moralità dei comportamenti di chi li guida. Risuona nelle orecchie il grido di Bettino Craxi – l’esponente politico diventato simbolo nel bene e nel male di quella stagione –  lanciato in quei momenti drammatici nell’aula di Montecitorio: “Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale”.

“Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

Trent’anni dopo, per molti versi – vedi lo scontro al calor bianco tra Matteo Renzi e i giudici fiorentini – siamo ancora lì. Una patologica guerra che è la palla al piede capace di azzopparela democrazia italiana.

 

Carlo Fusi – Editorialista, già direttore di giornale

 

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