Sulla pelle degli italiani. Parlamento suicida. Il centrodestra si ritrova e fa fuori Draghi. Mentre il Pd guarda la partita

Politica

Dal premier, nel suo discorso al Senato, è venuto  un appello alla serietà, la proposta agli alleati di governo di un nuovo patto di fiducia,  per riprendere a lavorare insieme. Ma è stato lasciato cadere  nel vuoto.Pare prevalere invece la smania dei personaggi di Cechov: “Alle urne alle urne”, invece di  “a Mosca a Mosca”.

Scorriamo il film di una partita politica che ha del rocambolesco e del surreale. I cittadini hanno tutto il diritto di esclamare: fino a quando?

Salvini cala subito l’asso e presenta un documento che nel gergo regolamentare si chiama “risoluzione”: prefigura un Draghi bis escludendo i 5 stelle. Casini, vecchio esponente Dc eletto nelle liste del Pd, presenta anche lui una risoluzione, secondo lo stile classico: “il Senato, udite le dichiarazioni del presidente del Consiglio le approva e passa all’ordine del giorno”.

Draghi fa un discorso di alto livello e di responsabilità, ricorda lo “spirito repubblicano” con cui si è messo al servizio del Paese, insieme con una maggioranza di unità nazionale (tranne Fdi, tenutasi fuori). Ricorda le tre emergenze ( pandemica, economica e sociale), prese di petto e ancora non del tutto risolte; parla di ‘’miracolo civile’’ riferendosi alla iniziale concordia nazionale con cui il Governo lavorava.

Il discorso del presidente del Consiglio di solito si conclude con un voto. Su una risoluzione, egli sperava, e comunque si prevedeva, se non della maggioranza che finora l’aveva sostenuto, almeno di uno schieramento amplissimo (senza i 5 stelle).

Invece è successo l’imprevisto: le risoluzioni sono diventate due, presentate da distinti partiti della stessa maggioranza.

Nella “famigerata” Prima Repubblica, che sempre più viene rivalutata dai disastri di questa cosiddetta Seconda Repubblica, in casi come questi cosa succedeva? I capigruppo della maggioranza, o perlomeno quelli che avevano maggiore prestigio, carisma, capacità di conciliazione, si mettevano attorno a un tavolo e cercavano una mediazione, una sintesi condivisa,  su un testo unitario concordato.

Nessuno si è mosso.

Certe domande vengono spontanee: Letta ha sottovalutato la rotta di collisione che si veniva a creare con la risoluzione di Casini, che in pratica riproponeva la maggioranza di prima, esclusa da Salvini e Berlusconi)? Ma prima di presentare la risoluzione,  Casini si era accertato che da parte di Conte ci fosse disponibilità?

Casini è una vecchia volpe della Prima Repubblica, un grande navigatore politico, è stato anche presidente della Camera e certo non ignora certi inghippi procedurali, certe esigenze del Regolamento che, come si è visto con il “pasticciaccio brutto” del decreto sugli aiuti, bocciato dai grillini  insieme con la fiducia giovedì 14 luglio, possono diventare detonatori di crisi politiche, se non vengono accortamente disinnescati.

Possiamo fare solo delle congetture.

Salvini nella risoluzione escludeva, d’accordo con Forza Italia, qualsiasi alleanza con i 5 stelle, e non è escluso che abbia presentato questo documento, da mettere in votazione, per essere sicuri che Conte non l’avrebbe votato.

Rischio che, sulla carta, poteva capitare alla risoluzione di Casini, che in teoria, dopo l’appello di Draghi “rimettiamoci insieme, torniamo insieme a lavorare”, poteva, chissà, provocare una mossa a sorpresa: il voto dello stesso Conte (anche se siamo propensi a credere che il capo dei resti dei 5 stelle non sia capace di certe finezze politiche). Poi si è visto che Conte si è acconciato, come oggettivo compagno di strada di Salvini e Forza Italia nella decisione di restare fuori dall’Aula (ormai ci sta prendendo l’abitudine, non lui personalmente che on è neanche parlamentare, ma il suo gruppo).

Alla fine cosa è successo?

Le due risoluzioni sono rimaste sul tavolo. Nessuno si è mosso per cercare una via di uscita. Non si è mosso Draghi ( non sappiamo quale sia la mente politica che lo consiglia), non si è mosso Letta. Dall’ex professore della scuola di politica parigina Science Po ci si aspetterebbe un sussulto di fantasia politica o perlomeno di iniziativa. L’unica che ha preso, si è rivelata una mossa sbagliata : andare a trovare Draghi alla vigilia di un passaggio parlamentare delicato, suscitando sospetti e congetture nelle altre forze politiche.

O dobbiamo ragione a un politologo che ha tacciato la gestione del segretario del Pd negli ultimi tempi di “immobilismo felice”?

Fatta la frittata, pare che anche Letta abbia esclamato: bisogna andare al voto. Forse perché i sondaggi non gli sono sfavorevoli? Ma sono favorevoli  solo a lui, nella sinistra. Per il resto il cosiddetto “campo largo” (alleanza politica vasta) da stadio di San Siro quale egli si prefigurava,  pare essere divenuto un campetto di calcetto. Soprattutto dopo la “sfortuna” di aver puntato sull’alleanza con Conte, e di aver scoperto  che rischia di zavorrare pericolosamente la nave del Pd con simile compagno di strada. Del che qualcuno nel Pd gli presenterà prima o poi il conto

Ma torniamo al discorso delle due risoluzioni: con la sua, Salvini ha fatto una mano di poker, un po’ agitando qualche carta ( una intesa tattica ritrovata con Giorgia Meloni in funzione di sfondamento elettorale alle urne più o meno vicine) e in parte agitando un bluff. In realtà puntava, dichiarandosi favorevole al Draghi bis, anche a un rimpasto colpendo due bersagli ormai noti della sua propaganda: il ministro Speranza e la ministra Lamorgese. Magari con l’intento di prenderne il posto e da titolare del Viminale trascorrere questi mesi che portano alla scadenza delle legislatura,  e soprattutto governando una campagna elettorale da ministro dell’Interno.

Salvini non ha letto evidentemente Eraclito, e quindi ignora che non ci bagna due volte nella stessa acqua; oppure gli basterà leggere l’Ecclesiaste e tenere presente il motto “c’è un tempo per ogni cosa”. Questo non è il tempo di Salvini ministro dell’Interno, forse lo sarà, ma per ora, direbbero a Napoli, “nun è cosa”.

E allora com’è poi finita la “guerra” delle due risoluzioni, molto meno epica della guerra delle due rose, è presto detto:  Draghi se n’è uscito con questa proposta: chiedo la fiducia sulla mozione Casini.

La Lega e Forza Italia naturalmente, temendo che Conte ritornasse in gioco, hanno deciso di non votarla. Ma, attenzione, hanno deciso di non votare a favore. Ma nemmeno contro, il che avrebbe portato subito  Draghi alle dimissioni, ma stavolta per colpa loro.

Hanno perciò deciso di non partecipare al voto. A questo punto, Draghi, vista la mala parata, avrebbe potuto chiedere alla presidente Casellati di poter parlare: visto l’andamento del dibattito, visto il chiaro indirizzo dove va a parare la situazione, non attenderò il voto e vado dal presidente della Repubblica.

Ma, apriti cielo, lo avrebbero accusato di non rispettare il Parlamento. Già oggi si è dovuto difendere dalle accuse della sen. Daniela Santanché, di Fratelli d’Italia, che gli aveva rudemente ricordato che non è stato mai eletto da nessuno ma solo nominato, e di avere più rispetto del Parlamento. In una replica, una delle più brevi della storia parlamentare, Draghi pur con tutto il suo autocontrollo ha fatto trasparire una certa irritazione per doversi difendere da accuse strumentali.

Non partecipando al voto la Lega, Forza Italia, tranne alcuni dissenzienti (Cangini; mentre la ministra Gelmini, ha contestato la scelta del non voto e si è addirittura  dimessa da Forza Italia, rischiando di venire alle mani con la senatrice Licia Ronzulli), si stava creando una situazione paradossale: la mancanza del numero legale sul voto di fiducia al governo.

Questo rischio, questa figuraccia istituzionale, è stata scongiurata, anche perché alcuni senatori dei 5 Stelle hanno deciso di restare in aula pur non partecipando al voto e hanno così garantito il numero legale.

Andati al voto, Draghi ha avuto 95 sì. Presenti 192 ( mancavano circa 120 senatori). Votanti 133. Maggioranza richiesta: 67 ( metà più uno di 133).  “Il Senato approva”.

La fiducia, formalmente, al governo è stata concessa.

Ma che fiducia è? Mancano all’appello tre dei vecchi alleati ( Lega, Forza Italia, 5 Stelle). Draghi aspettava una risposta a un nuovo patto di fiducia, e aveva testualmente detto: i partiti, voi parlamentari siete pronti? La risposta si è vista.

Draghi è stato invocato a restare dalla società civile, dai ceti produttivi, dai Sindaci (solo duemila, hanno commentato acidamente alcuni critici, i sindaci in Italia sono ottomila. Se avesse l’ironia di Andreotti, Draghi avrebbe potuto replicare a questa risibile obiezione con le parole di Cuccia, a proposito di Mediobanca: certe azioni non si contano si pesano).

Quello del Senato è un risultato che ovviamente Draghi non può ritenere sufficiente per proseguire. Invece di salire al Colle, già ieri sera, ha atteso la seduta della Camera già prevista per stamattina. Ma non ci sarà, come pure astrattamente potrebbe anche essere richiesto, un dibattito a Montecitorio  e una replica.

Anche perché, Regolamento o no, è molto difficile che a Montecitorio Salvini e Forza Italia recitino un altro copione. Qualcuno potrebbe dire che si è trattato di una farsa, molto peggio del solito teatrino con cui di solito si descrivono certe liturgie politiche.

Ma un punto ci preme sottolineare, per correttezza d’informazione: dopo lo strappo di Conte al Senato giovedì 14 luglio, Lega e Forza Italia giurarono: mai più al governo con i 5 stelle.

Questa posizione è stata sottovalutata dalle altre forze politiche della maggioranza. Non è stata presa sul serio.  Neanche forse dallo stesso Draghi. Perciò la risoluzione di Casini che proponeva di riprendere la navigazione governativa anche con il partito di Conte deve essere apparsa rischiosa e provocatoria. E hanno agito di conseguenza.

Ma qui siamo sempre al livello della politique politicienne. In tutto questo sembra essere assente quello che dovrebbe essere la bussola dell’agire politico: l’interesse del Paese “lo spirito repubblicano”, ricordato da Draghi,  la responsabilità nazionale, lo spirito patriottico. Tutto questo sembra risuonare come litania di parole e non pratica conseguente, specialmente in chi più se ne ammanta e ne fa bandiera.

Draghi bis? I giornali che cominciano a ricamare non hanno capito che Draghi non è uomo per tutte le stagioni e per tutti i governi: avrà i suoi difetti, non ha assimilato o forse disdegna la grammatica di questa politica italiana, specie certe sgrammaticature; è accusato di essere altezzoso, di servire le banche i poteri forti con quel che segue ( c’è tutto un glossario di accuse di questo tipo).

Ma una cosa è certa: in 18 mesi Draghi  si è messo al servizio dello Stato, avrà fatto errori, è stato timido su certi terreni – fisco, salari, e stipendi – ma anche ieri ha fatto un discorso da uomo di Stato, fatto di concretezza e di visione. E ha espresso l’orgoglio di essere italiano.

Purtroppo, la serietà e il linguaggio che parla sembrano una lingua straniera, in questa torre di babele politica che è diventato il Parlamento italiano.

 

Pangloss

 

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