I pellegrinaggi portano sempre con sé un’attesa e tanti desideri. Ancor più se si compiono in luoghi carichi di storia, di simbologia religiosa e cultura di straordinaria ricchezza e bellezza. Gerusalemme, è uno di questi luoghi; per i cristiani il più attraente, non di meno che per ebrei e musulmani, le cui fedi hanno qui la loro origine, ossia quella nel Dio che si rivela e parla.
La Terra Santa, di cui Gerusalemme è la perla centrale, nella sua più ampia configurazione israelo-palestinese, è diventata dal 7 ottobre dell’anno scorso una terra di massacri, di guerra e di nuove tensioni. Si è aggravata quella crisi sempre latente dalla quale i tanti sforzi internazionali non sembrano averla mai liberata.
Così sono scomparsi i pellegrinaggi; le fragili relazioni sono state interrotte; i complicati e travagliati rapporti economico-sociali di cui comunque vive gran parte della popolazione palestinese, anch’essi troncati; l’economia è in sofferenza. Molte famiglie non hanno di che vivere.
Ho vissuto cinque giorni di fronte alle antiche mura presso Porta Nuova, uno degli ingressi alla Città Vecchia, quella che immette direttamente nel quartiere cristiano; è impressionante il vuoto: né pellegrini, né visitatori, né vita; negozi chiusi e sbarrati, qualche raro abitante e qualche raro gatto randagio. La Città è pulita, le stradine, contorte e a gradini, lavate; il silenzio ovunque; qualche insolito motore degli addetti alla manutenzione stradale appare quasi fuori posto.
Essere pellegrini, quando tutto è fermo, lascia il posto ad un profondo disagio: che senso ha essere andati là? L’idea di farsi pellegrino sembra quasi inopportuna e la preoccupazione, o la paura, può prendere il sopravvento. Andare a Gerusalemme, per chi ascolta le notizie che ci passano i media, può sembrare temerarietà; è quanto insinuava qualcuno alla mia partenza; di fatto, non è così. Eppoi, nella vita si è viandanti senza rischi?
Essere pellegrino a Gerusalemme e Betlemme oggi è pregare per la pace, è manifestare vicinanza, solidarietà verso due popoli che non usano parlarsi, che si combattono, si odiano e rivendicano diritti veri, antichi, attuali. Tutto ciò non è un’utopia nella presente situazione? Apparentemente sì; ma non nella Città Santa, Gerusalemme, che, distrutta e ricostruita centinaia di volte, porta nelle sue pietre sacre, per il cristiano, la fede nel Cristo risorto; cioè il segno vivo della speranza stessa.
Proprio la risurrezione di Cristo apre al futuro per dire che la violenza, le lotte, le contrapposizioni non possono avere l’ultima parola. Sulla venerata pietra del Santo Sepolcro ho pregato; lì pregano quotidianamente i francescani, gli ortodossi, gli armeni, i copti e tanti altri fedeli con grande devozione. Il Risorto che aveva pacificato i cuori dei dubbiosi, non ha finito la sua opera con noi oggi.
Essere pellegrino a Gerusalemme, ora, mentre la pace ha bisogno di essere creduta, sperata e amata, significa caricarsi e portare il desiderio di milioni di uomini e donne che della speranza per la pace fanno continuamente preghiera a Dio.
Essere pellegrini in questa Città Santa, che nel DNA del proprio nome – shalom, salam – ha un progetto di pace, significa addentrarsi nel suo mistero; Gerusalemme è un mistero: Città Santa, Città adorata, amata, sognata, conquistata, distrutta e riedificata, nelle presenti circostanze chiede ancora una volta che la speranza della pace non si spenga; effettivamente i pochi pellegrini incontrati, consapevoli dei drammi in essere – posso assicurarlo – avevano sul loro volto il segno di una fiducia grande: Dio è più grande, e la volontà di Dio incisa nelle pietre e nella vita delle persone che abitano Gerusalemme è oltre la cronaca delle violenze. Ma gli uomini che scelgono la violenza e la guerra, che volto hanno? Quale futuro sperano?
E Gerusalemme attende così il ritorno dei suoi pellegrini. Ho sentito i drammi delle famiglie israeliane inconsolabili; le loro ferite, profonde, sono ancora gravissime. Mi è stato anche raccontato dal parroco di Gaza che mi accompagnava delle distruzioni umane e materiali, nonché della sopravvivenza drammatica dell’unica parrocchia cattolica, che egli spera appena possibile di raggiungere, essendone rimasto fuori prima che scoppiasse la guerra.
Essere pellegrini, significa stare tra le parti; e la percezione, a volte, è di essere anche strattonati ora dall’una, ora dall’altra; ciò è comprensibile; ma non si deve cedere alla contrapposizione, perché il sangue israeliano e il sangue palestinese non hanno un colore diverso e le lacrime non hanno una tinta differente.
L’ascolto delle reciproche ferite richiede coraggio: soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce, secondo l’insegnamento biblico (cfr. Sir 7, 34, Rm 12, 15), ci mostra il cammino perché le ragioni vanno tenute in conto e vanno messe sul tavolo della discussione di chi ha il potere nelle proprie mani; ai politici, pertanto, va continuamente ribadito che bisogna sedersi e parlarsi, senza violenza, senza preconcetti e senza provocazioni. Ciò per non rassegarsi alla violenza delle armi.
Tornare pellegrini in Terra Santa è ridare forza alla speranza di uomini e donne che non si rassegnano né agli eccidi vigliacchi dei terroristi, né al martellamento dissennato delle bombe e dei carri armati.
Tornare in Terra Santa è amarla; è amare Gerusalemme, amare Betlemme, amare Nazareth; è ridare ad esse la vita, perché il Dio amato da Mosè, rivelato in Cristo e pregato dai musulmani, torni ad avere là un posto. La Terra Santa appartiene a tutti.
Chi è il pellegrino oggi a Gerusalemme? È un piccolo operaio che costruisce la pace!
Fernando Cardinale Filoni – Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Prefetto emerito della Congregazione per la evangelizzazione dei popoli.