Politica

40 anni dal governo Craxi/interviste 12/ Di Muccio. Un liberale rigoroso dice la sua spassionatamente e con metafore spiazzanti

Di Muccio, ex parlamentare, di scuola e di studi liberali, fa una “doverosa premessa” prima di rispondere alle domande: presentati nel Pli una mozione per non partecipare al governo Craxi e non entrare neanche nella maggioranza. “Non c’era da conquistare Parigi e quindi non era il caso di andare a messa”                                                                         ***** Il Consiglio nazionale del PLI del 1983, ad inizio legislatura, fu chiamato a decidere se partecipare o no alla svolta politica del primo governo presieduto da un socialista, il segretario stesso del PSI. Vi furono presentate tre mozioni. La prima di “Democrazia liberale”, firmata Malagodi e Bozzi, che approvava l’azione della segreteria per entrare nella maggioranza e nel governo, ebbe 86 voti. La seconda di “Autonomia liberale”, firmata Sterpa e Rossi, che, senza opporsi a tale partecipazione, poneva delle condizioni, ebbe 14 voti. La terza, scritta e firmata da me, ebbe solo il mio voto. Nella mozione e nell’illustrazione argomentavo le ragioni storiche e politiche, per le quali il PLI non dovesse entrare né nella maggioranza né nel governo Craxi.              Chi avesse la curiosità di riandare a quell’importante dibattito, potrebbe soddisfarla leggendone il resoconto su “L’Opinione”, 6 settembre 1983. Allegai a mio sostegno e conforto anche il celeberrimo discorso che Benedetto Croce tenne in Senato il 24 maggio del 1929 sui Patti Lateranensi. Notai anch’io che coloro i quali si compiacevano di vedere nel governo socialista in gestazione un bell’atto di “fine arte politica” mettevano in pratica il “trito detto che Parigi val bene una messa”. Mi sento di dire che con il governo Craxi il PLI non andò a Parigi né valeva la pena ascoltare la messa per andarci. Tra l’altro aggiunsi che, con il PLI nella maggioranza, mentre il coefficiente liberale del governo sarebbe stato impalpabile quanto incerto, l’opposizione

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Politica

25 Aprile, Di Muccio: perché la festa non mi fa giubilare

Il 25 aprile del 1945 la mia Patria fu liberata dall’esercito nazista e dal regime fascista che gliel’aveva asservita. Il Nord dell’Italia, occupato dai tedeschi e dai repubblichini, fu ricongiunto al resto del Paese, che tornò ad essere unito, libero e indipendente, come lo vollero e costruirono gli artefici del Risorgimento. L’anno della Liberazione nazionale fu anche l’anno della liberazione personale di mio padre Guido, che tornò a casa nell’agosto del 1945. Il 9 settembre 1943 (il giorno dopo il fatidico 8 Settembre!), mentre come ufficiale medico dirigeva l’ospedale da campo di Bencovazzo, vicino Zara (oggi Croazia), fu catturato dai nazisti e deportato nel lager di Meppen, nella Germania nordoccidentale al confine con l’Olanda, non nell’oflag per ufficiali ma nello straflager, “campo di punizione” per prigionieri protagonisti di tentativi di fuga o di atti di insubordinazione.  Fu uno delle migliaia e migliaia di “Internati Militari Italiani” che preferirono sopportare le terribili condizioni di vita della prigionia anziché tornare in Italia a servire nell’esercito di Salò. Fu uno dei “Volontari della Libertà”, i patrioti della Resistenza senz’armi (secondo gli storici Avagliano e Palmieri) ovvero dell’Altra Resistenza, secondo Alessandro Natta, segretario del Pci, che così intitolò il libro che invano cercò di pubblicare nel 1954 con gli Editori Riuniti, riuscendoci nel 1997 con Einaudi! Alessandro Natta, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, scrive che iniziò da subito a rivendicare “il valore della non collaborazione, della resistenza a cedimenti e compromessi dei soldati e degli ufficiali prigionieri in Germania come una realtà che era legittimamente parte della lotta di liberazione. Sia chiaro: la tesi che nel 1954 mi sforzavo di provare – che la prigionia nei lager tedeschi era parte integrante della resistenza antifascista – mi sembra oggi generalmente condivisa.” Ma Natta sbagliava. La sua tesi non era condivisa, né nel 1954, né nel

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Cultura

Come D’Artagnan, Pietro Di Muccio è andato alla conquista della Capitale

Novello D’Artagnan, un giovanissimo Pietro Di Muccio de Quattro, un uomo con due cognomi che si è fatto pure un nome, lasciò il paesello natìo e andò alla conquista della Capitale. Giulio Andreotti sosteneva che l’importante per una lunga vita è avere buoni ascendenti. La stessa cosa si potrebbe dire di Pietrino, come lo chiamo da tempo immemorabile. Lui non solo ha ottimi ascendenti, tant’è che il padre Guido è stato stimato sindaco del borgo natìo per un bel po’. Ma è nato in un luogo dove Vittorio Emanuele II incontrò un Giuseppe Garibaldi vittorioso sul Borbone. E fu fatta l’Italia. Tutto questo e molto altro ancora ce lo racconta il sullodato Pietrino in un libro – rara avis – ben scritto, godibilissimo e non privo d’ironia. S’intitola Deputato per caso. Ricordi personali e memorie politiche, Macerata, Edizioni Simple, pagine 212, € 15. Il paragone con D’Artagnan non è affatto esagerato. E perché non s’insuperbisca il chiaro Autore, non lo salutiamo come il nuovo Cesare con il suo Veni, vidi, vici. Sta di fatto che le cose stanno precisamente così. Perché il sullodato Autore potrebbe cingersi il capo di alloro per i molteplici successi che gli riserverà Roma. Così si reca nello Studium Urbis di mussoliniana memoria e si laurea in Giurisprudenza con 110 e lode dopo aver superato tutti gli esami a pieni voti. Anche nelle materie più ostiche e con docenti autorevolissimi che erano lo spauracchio degli esaminandi. Già che c’è, di lì a poco si laurea brillantemente anche in Scienze politiche e, per di più, non fatica a impreziosire il proprio curriculum con un dottorato di ricerca. Ma tutto questo, come ben sanno i più avveduti, non è un traguardo ma un punto di partenza. Dopo uno studio non proprio matto e disperatissimo, perché Di Muccio supera

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Cultura

Il presidente taumaturgo. | Ecco quattro motivi per cui non lo è

Mettiamo le mani avanti. Chiunque sarà eletto presidente della Repubblica non determinerà lo sviluppo generale della Nazione. Appartiene al carattere del popolo italiano la credenza, meglio: l’illusione, che l’avvenire della società sia nelle mani di qualche supremo governante.  L’andamento della discussione, per quanto estenuante e banale, sul miglior presidente possibile sembra dimostrare la fede che gli italiani ripongono nel Quirinale, nell’uomo e nella carica. Che il presidente della Repubblica possegga in diritto o, all’occorrenza, eserciti di fatto una serie di poteri notevoli e addirittura decisivi in certe specifiche contingenze, è fuori discussione. Tuttavia, nessuno di tali poteri è politicamente determinante, addirittura miracoloso. Il presidente non è un taumaturgo. Non opera prodigi economici o sociali. Né può essere riguardato sotto il profilo del salvatore.  L’enfasi straordinaria quanto ingiustificata che le forze politiche hanno posto sull’ultima elezione presidenziale è stata generata innanzitutto dall’avvento di Mario Draghi a Palazzo Chigi, insediatovi quale demiurgo del Piano di rinascita. Il presidente del Consiglio ha scombussolato il Palazzo sia per le qualità personali, sia per il mandato ricevuto, sia, soprattutto, per l’ingombro sulle aspettative dei partiti e sulle aspirazioni dei concorrenti. Come un pericoloso calabrone penetrato nell’alveare, ha fatto impazzire le api. L’iperbolica esagerazione del processo elettorale del presidente della Repubblica ha pure altre cause, che emergono per contrasto. La prima delle quali sta nella sostanziale impotenza delle forze politiche, attestata pure dall’inconcludente chiacchiericcio che affligge da settimane pure gli interessati. L’impotenza delle forze è un bell’ossimoro. Non in politica però, dove le leggi fisiche non valgono. Se i partiti non riconnettessero al presidente della Repubblica la virtus portentosa miracolorum auctoris non si sarebbero dati un tal daffare da aver dimenticato tutto il resto, soprattutto il peso dei macigni sulle spalle della nazione. Un peso che dovrebbero sentire pure loro. Una seconda causa consiste nell’intento di

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