Scuola, Riforma Gentile 100 anni dopo. Luci, ombre e significato storico di una riforma che ha segnato per decenni la scuola italiana

La riforma varata da Giovanni Gentile presenta una singolare oscillazione fra una visione profondamente liberale della cultura e un’impronta autoritaria e statalistica nell’architettura gerarchica. Non fu Gentile a inventare il liceo classico, ma fu lui a farne la porta d’oro d’accesso all’Università La Ricostruzione e il miracolo economico sono state gestite in larga parte da quadri formatisi nella scuola gentiliana, selettiva, sì, ma formativa Selettività e rigore degli studi, l’esame di maturità un incubo per molti studenti anche nel Dopoguerra

Il centenario della riforma Gentile, che ricorre quest’anno, non consente di celebrare un anniversario a tutto tondo, perché le scelte del filosofo di Castelvetrano, che impresse alla scuola italiana un’impronta destinata a sopravvivere alla sua scomparsa, non trovarono attuazione con un unico provvedimento, ma conobbero applicazione in una serie di decreti legge che, prendendo le mosse dalla legge delega del 3 dicembre 1922, furono varati lungo l’arco di quasi dieci mesi.

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Giovanni Gentile

Se da un punto di vista tecnico-giuridico si trattò dunque di una riforma scaglionata nel tempo, le trasformazioni recate da Gentile alla scuola italiana di ogni ordine e grado furono però caratterizzate da un’impostazione unitaria. Con la scelta di entrare come ministro della Pubblica Istruzione nel primo Gabinetto Mussolini, il filosofo riuscì in quello in cui era fallito l’allora amico e sodale Benedetto Croce: improntare l’architettura normativa della nostra scuola, a lungo dominata dall’egemonia culturale positivistica, ai principi del neoidealismo.

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Benedetto Croce

Entrato, sia pure da indipendente, nel governo uscito dalla marcia su Roma, Gentile poté contare sui vasti poteri conferiti a Mussolini da una larga maggioranza per superare le ostilità che avevano impedito a Croce di rinnovare la scuola italiana. Ostilità che per altro non mancavano neppure in vasti ambienti fascisti, perché una riforma che comporta maggior rigore negli studi, rinnovamento dei programmi e della distribuzione delle discipline, con accresciuti impegni per i docenti, snellimento della macchina burocratica, con la conseguente riduzione delle posizioni apicali (gli ispettori centrali furono ridotti a quattro, i provveditori a diciannove), non poteva non risultare impopolare sia presso i dipendenti del ministero, sia presso le famiglie.

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Benito Mussolini

Sotto questo profilo, la riforma Gentile non fu certo “la più fascista delle riforme”, come la definì Mussolini più per dare una copertura politica al ministro che per intima convinzione. Fu una riforma ispirata in parte a principi liberali, che si avvalse però del decisionismo di un governo autoritario per venire alla luce. La stessa scelta da parte di Gentile di prendere la tessera del Pnf, nel maggio 1923, potrebbe essere stata dettata anche dalla preoccupazione di tacitare i “mugugni” e le esplicite proteste suscitate anche fra i fascisti dalla sua riforma, soprattutto per quanto concerneva l’introduzione dell’esame di maturità. Se il movimento di Mussolini, secondo la lezione di Renzo De Felice, fu l’espressione dei ceti medi emergenti, il filtro selettivo di un esame che nelle prime edizioni comportò quasi la metà di non promossi non poteva non suscitare proteste in quanti auspicavano per i loro figli un facile accesso ai gradi più alti dell’istruzione.

In realtà la riforma varata da Giovanni Gentile presenta una singolare oscillazione fra una visione profondamente liberale della cultura e un’impronta autoritaria e statalistica nell’architettura gerarchica. Statalista è per esempio la decisione di rendere i rettori universitari di nomina governativa, come i presidi delle scuole, selezionati senza concorso. Gerarchica, in certo qual modo, era la decisione di lasciare all’ordine di studi superiore, e ai suoi docenti, la valutazione dei candidati, con un sistema di prove che dall’esame di ammissione alle medie proseguiva con l’esame di licenza ginnasiale, sino a un esame di maturità in cui era vasta, fra presidenti e commissari, la presenza di professori universitari.

Intimamente liberale è invece la scelta di prevedere l’insegnamento della filosofia (accorpato, non a caso, a quello della storia) in chiave storicistica, lasciando ampia libertà al docente nella selezione degli autori e dei testi, o di responsabilizzare gli insegnanti lasciando loro la stesura dei programmi per la maturità. Contraddizioni? Forse, e comunque non infrequenti nelle scelte di Giovanni Gentile, anche dopo le sue dimissioni da ministro della Pubblica Istruzione, il 1◦ luglio 1924, in seguito al delitto Matteotti.

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Giacomo Matteotti

L’uomo che aveva perorato l’obbligo del giuramento di fedeltà al Regime per i docenti universitari era lo stesso che invitava a lavorare per l’Enciclopedia Treccani docenti rimasti senza cattedra in seguito al provvedimento da lui stesso approvato. E poi, silente in pubblico sulle leggi razziali (come del resto lo stesso Croce, che pure era intervenuto in Senato contro i Patti Lateranensi), difese in privato profughi ebrei dalla Germania, come lo storico della filosofia Paul Oskar Kristeller.

Paul Oskar Kristeller

L’architettura della scuola gentiliana non stravolgeva la precedente, ma le recava alcune significative modifiche legate soprattutto ai criteri di mobilità da un ordine di studi a un altro e di accesso alle facoltà universitarie. Gentile non fu certo l’inventore del liceo classico: i licei, istituzionalizzati in Italia durante l’età napoleonica, erano del resto gli eredi dei collegi gesuitici con la loro ratio studiorum imperniata sullo studio dei classici, a sua volta erede della tradizione umanistica. Fu lui però a fare di quell’ordine di studi la porta d’oro dell’università.

Con la riforma del 1923 solo chi usciva dal ginnasio liceo poteva iscriversi a tutte le facoltà universitarie, umanistiche e non; ai diplomati del liceo scientifico era invece precluso non solo l’ingresso a Lettere, ma alla stessa facoltà di Giurisprudenza. Lo stesso liceo scientifico, almeno come denominazione, era una “invenzione” gentiliana. Prima esisteva il liceo moderno, con una maggiore apertura alle scienze esatte e alle lingue straniere, varato nel 1911 per iniziativa dell’allora ministro della Pubblica Istruzione, il pedagogista Luigi Credaro.

La “gerarchizzazione” fra i due licei (il corso era di quattro anni allo Scientifico, di cinque al Classico) si esprimeva nella chiusura per i diplomati dello Scientifico di uno sbocco culturale e professionale molto ambito: la classe dirigente italiana era infatti all’epoca costituita soprattutto da laureati in giurisprudenza e la maturità classica si rendeva di conseguenza indispensabile per chi intendesse conseguire una laurea che assicurasse molteplici sbocchi lavorativi.

Altra innovazione della riforma fu la trasformazione delle scuole normali (espressione entrata in uso durante la dominazione napoleonica, di cui resta traccia nella denominazione della Scuola Normale Superiore) in istituti magistrali, di cui per altro Gentile rifiutò la parificazione ai licei, proposta dal suo collaboratore Ernesto Codignola. Non si trattò soltanto di una questione terminologica: nella ridefinizione delle cattedre l’insegnamento della psicologia fu soppresso (corollario dell’ostilità neoidealistica, condivisa anche da Croce, nei confronti delle “pseudoscienze”?) e quello della pedagogia accorpato a quello della filosofia. Con un orario di tirocinio sensibilmente ridotto, le “magistrali” assunsero quelle caratteristiche di liceo femminile, di serie B rispetto al classico anche per la durata solo quadriennale, che hanno conservato sin quasi alla loro soppressione.

Per il resto, l’architettura scolastica italiana subiva dopo la riforma alcuni cambiamenti di un certo spessore. L’obbligo di frequenza veniva innalzato a quattordici anni (lo stesso che sarebbe stato previsto dalla Costituzione repubblicana) ed esteso, novità non priva di valore etico, anche a ciechi e sordomuti. Nella scuola elementare veniva istituzionalizzato lo studio della religione, non perché Gentile fosse un devoto cattolico (i suoi testi, anzi, sarebbero stati messi all’Indice), ma perché scorgeva in essa una forma elementare e popolare di filosofia.

Dopo le elementari, per il completamento dell’obbligo scolastico si aprivano diverse possibilità. Chi non intendeva proseguire gli studi una volta compiuti i quattordici anni poteva iscriversi alle scuole complementari di avviamento al lavoro, terminate le quali si trovava però sbarrata la possibilità di continuare; per questo la piccola borghesia e parte delle aristocrazie operaie le evitavano, scorgendo in esse un vicolo cieco per la crescita professionale.

Chi intendeva continuare dopo l’esame di ammissione poteva iscriversi alle scuole medie inferiori, i cosiddetti “ginnasietti”: tre anni di corso in cui era previsto lo studio del latino e al termine dei quali poteva accedere agli istituti tecnici, alle Magistrali o ai licei. In questo modo la scuola del Ventennio, e anche quella dei primi decenni del secondo dopoguerra, preparava figure professionali qualificate, non sprovviste di almeno un’infarinatura di cultura umanistica.

Non bisogna dimenticare che la Ricostruzione e il miracolo economico sono state gestite in larga parte da quadri formatisi nella scuola gentiliana, selettiva, sì, ma formativa, in grado di sfornare, negli otto o sette anni successivi alle elementari, non solo latinisti o letterati, ma periti industriali, ragionieri, geometri. Del resto la scienza italiana non ha conosciuto forse un periodo di maggior vitalità, soprattutto nel campo della fisica, come durante il Ventennio, con i “ragazzi di via Panisperna”, di cui faceva parte lo stesso figlio del filosofo, Giovanni Gentile Jr, studioso di grande valore precocemente scomparso. La solida formazione umanistica fornita dal ginnasio-liceo non precludeva affatto dopo la maturità un ottimo profitto anche nelle discipline scientifiche.

Il simbolo della selettività, innegabile, della scuola gentiliana era costituito dall’esame di maturità, che ha rappresentato per più di una generazione una sorta di prova iniziatica per certi aspetti ancora più severa del servizio militare. L’obbligo di portare dinanzi a una commissione di soli membri esterni, provenienti da altre regioni d’Italia, i programmi di tutto un triennio ha costituito un incubo anche nel dopoguerra, almeno sino agli anni Sessanta

Vi fu un eccesso di severità? Senz’altro, anche se la colpa non è addebitabile solo a Gentile. Il filosofo vedeva nella maturità, in coerenza col vocabolo, l’occasione per il candidato di dimostrare la sua crescita intellettuale e la sua capacità di elaborare e collegare fra loro le nozioni assimilate: qualcosa di molto diverso dal mero nozionismo, che poi sarebbe divenuto, a torto o a ragione, la bestia nera della contestazione sessantottesca.

Non tutti gli esaminatori furono in grado di procedere lungo quella strada e quello che sarebbe dovuto essere il colloquio conclusivo di un lungo ciclo didattico si risolse a volte in un mero “interrogatorio”, cui il candidato si preparava con un pesante sforzo mnemonico e magari con l’ausilio dei famigerati “bignamini”. Tutto il contrario di quanto auspicato da Gentile, che a un insegnamento manualistico avrebbe preferito, almeno nelle discipline umanistiche, la lettura diretta dei testi. Chi però ha di recente selezionato i futuri docenti con i quiz a risposta chiusa scagli la prima pietra.

Eppure, se consideriamo la realtà sociale italiana nei primi decenni del secolo scorso, la preoccupazione gentiliana di stringere il filtro selettivo non era del tutto immotivata. La disoccupazione intellettuale, specie fra i laureati in discipline umanistiche, era molto diffusa e per convincersene basterebbe leggere un articolo come Cocò all’università di Napoli o la scuola della malavita, pubblicato sulla “Voce” del 3 gennaio 1909 da Gaetano Salvemini, ma anche un romanzo a tesi come Rubè di Giuseppe Antonio Borgese.

Avvocati senza clienti, avvocati senza cattedra, medici senza pazienti costituivano già in età giolittiana un preoccupante proletariato accademico. Nel dopoguerra la situazione divenne ancora più critica per la smobilitazione di laureati e diplomati che nel conflitto avevano conseguito i gradi di ufficiale di complemento, si erano abituati a uno stipendio sicuro e a un certo status sociale, ma ora si trovavano alle prese con un mercato del lavoro tutt’altro che ricettivo.

La selezione cui aspirava Gentile era comunque una selezione fondata non sul censo, ma sull’intelligenza e sul merito, come dimostra fra l’altro il suo impegno per rivitalizzare la Normale di Pisa, nel dopoguerra povera di risorse, alla quale potevano accedere solo i più qualificati, tramite pubblico concorso, e da cui uscì in effetti l’élite culturale italiana nelle discipline umanistiche.

Che la riforma Gentile, con l’esame di maturità che ne rappresentava uno dei punti qualificanti, non fosse una riforma gradita a buona parte della classe dirigente fascista è dimostrato dalle sue vicissitudini nel corso del Ventennio, ma anche nel successivo dopoguerra. Con il 1925 e la nomina alla Minerva del medievista Pietro Fedele, ebbe inizio quella che fu definita “la politica dei ritocchi”: ritocchi che finirono, almeno in parte, per snaturare l’edificio gentiliano. Dietro le pressioni delle famiglie, la selettività dell’esame di Stato fu progressivamente ridotta, fu abolito l’obbligo per i maturandi di portare alla maturità i programmi di tutto il triennio e il ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon avviò un’opera di fascistizzazione della scuola, solo in parte per altro riuscita per le resistenze del corpo accademico.

Cesare Maria De Vecchi » Dodecaneso

Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon

Nel 1939 il ministro Bottai varò la Carta della Scuola, che fu applicata solo in parte a causa della guerra e che, con il teorizzato obbligo del lavoro manuale in tutti gli ordini di studi, rappresentava una rivincita del populismo fascista sull’idealismo gentiliano. Qualcuno, ironizzando ma non troppo, ha scorto in essa un tentativo di mettere la camicia nera a John Dewey, fondatore del pragmatismo pedagogico statunitense. Intanto la difficoltà di spostamenti interni in seguito al conflitto rendeva meno traumatico l’esame di Maturità, imponendo commissioni formate da soli membri interni, in anni in cui ben altri traumi attendevano i giovani diplomati.

John Dewey. Democrazia e educazione - Sikelian

John Dewey

Paradossalmente proprio nel dopoguerra, superata la fase dell’emergenza bellica, si verificò quella che si potrebbe definire una fase di “restaurazione gentiliana”, con il ministro democristiano Guido Gonella, a suo tempo esponente di spicco dell’antifascismo cattolico, che reintrodusse l’obbligo dei riferimenti ai programmi dei due anni precedenti, sia pure sotto forma di semplici cenni, sia pur introducendo la figura dei membri interni: prima due, poi solo uno.

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Guido Gonella

L’adesione del filosofo al regime e persino alla Repubblica Sociale non annullava, anche in quanti avevano conosciuto le prigioni fasciste, il rispetto per la sua riforma; l’obbligo dell’esame di Stato previsto dalla Costituzione al termine di tutti i cicli di studi, del resto, incardinava nella suprema Carta uno dei capisaldi della riforma Gentile. In piena Ricostruzione il ritorno a un esame di maturità “serio” era percepito come la prova che anche l’Italia fosse tornata alla sua normalità.

Oltre a questo occorre aggiungere altri due motivi del mancato smantellamento dell’architettura scolastica voluta da Gentile: il fatto che alla riforma avessero collaborato pedagogisti in seguito non allineati col fascismo, come Giuseppe Lombardo Radice ed Ernesto Codignola e forse anche una forma di sia pur tardiva pietas per la morte crudele e insensata del pensatore.

Solo con gli anni Sessanta l’assetto gentiliano della scuola italiana conobbe i primi colpi. Da un lato la neoborghesia uscita dal miracolo economico, pur mandando i figli al Classico, la cui frequenza era considerata a volte uno status symbol, come l’ingresso al circolo del tennis o l’acquisto di enigmatici dipinti concettuali, cominciò a manifestare la sua impazienza nei confronti delle lingue morte, ritenute “inutili” perché non funzionali al circuito produttivo.

Dall’altro il varo del centrosinistra impose la nascita della Scuola Media Unica, nata dal connubio fra il vecchio triennio del ginnasio e le scuole di avviamento professionale, con una formula di compromesso che comunque salvava la persistenza del latino, obbligatorio in seconda e facoltativo in terza. L’“antilatinismo”, verzicante nella cultura italiana sin dagli anni dell’illuminismo, ma avversato da seri intellettuali marxisti come Concetto Marchesi, si prendeva una parziale rivincita: parziale perché, se da un lato diminuiva gli anni di studio per chi avrebbe proseguito gli studi classici, dall’altro familiarizzava con i rudimenti della lingua latina chi prima della riforma avrebbe familiarizzato soprattutto con la computisteria o l’“aggiustaggio”. La soluzione di onorevole compromesso non durò tuttavia a lungo: la successiva riforma dei programmi della scuola media, nel 1979, espunse definitivamente il latino dai programmi, anche sotto forma di materia opzionale.

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Concetto Marchesi

Alla fine degli anni Sessanta, intanto, sull’onda della contestazione due nuovi provvedimenti demolivano altrettanti fondamenti della costruzione gentiliana. Il nuovo esame di Stato, estremamente semplificato, perdeva la sua selettività, e l’accesso a tutte le facoltà dei diplomati di ogni ordine di studio sottraeva al liceo classico la sua antica primazia. Ulteriori colpi al vecchio impianto gentiliano sarebbero stati negli anni Novanta l’introduzione di commissioni reclutate nella stessa città o provincia, per esigenze di mero risparmio sulle diarie, la successiva riforma Berlinguer, l’introduzione delle commissioni interne, la “delatinizzazione” di alcune branche del liceo scientifico, la “de professionalizzazione” degli istituti tecnici, che ormai demandano ai corsi di laurea breve la formazione di periti industriali, ragionieri, geometri, un tempo orgoglio della scuola italiana.

Oggi meno di sei studenti su cento si iscrivono al Classico e le ragazze sono il doppio degli iscritti maschi, quasi come nelle vecchie Magistrali. Sarà problematico contrastare questa tendenza aumentando nell’ex ginnasio-liceo, come suggeriscono alcuni, il peso delle discipline scientifiche, perché la forza di questo tipo di scuola era sempre stato di insegnare non multa, sed multum, e la frammentazione del quadro orario rischierebbe di alterarne l’intima natura.

Tutto, di conseguenza, lascia presumere che la futura classe dirigente italiana potrà contare sempre meno su una formazione umanistica. Già da tempo, del resto, è frequente il caso di medici, avvocati, persino magistrati che scrivono out out per aut aut, e in omaggio all’anglomania imperante la conoscenza dell’inglese nei concorsi per la pubblica amministrazione è considerata più importante di quella della nostra lingua madre.

Del resto già da molti decenni l’osservazione “si vede che lei ha fatto il classico” ha perso la sua originaria connotazione elogiativa, per assumerne una sottilmente derisoria. Chi scrive ricorda che, in occasione di un convegno sui nuovi programmi scolastici organizzato nel 1983 a Fiuggi dall’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti, a un insigne pensatore come Vittorio Mathieu sfuggì un lapsus che indusse la platea a un educato brusio: elogiando il liceo classico gli sfuggì detto “museo classico”. C’era, forse, in quella svista un fondo di verità, ma non amara come potrebbe sembrare. Il Classico sarà anche un museo, ma un museo in cui si conservano i valori fondanti della civiltà europea, sia pure sempre di più a titolo di nobile testimonianza. E questo è forse l’ultimo vero lascito di Giovanni Gentile e della sua riforma.

 

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