Quel giorno di 100 anni fa. Come si arrivò a perdere la libertà

La marcia su Roma del 28 ottobre tra complicità e debolezze dello Stato

Vedendo le camicie nere sfilare, scalcagnata compagnia armata di randello e qualche schioppo da caccia, davanti a un plotone armato di tutto punto del regio esercito, un prete notò: “Noi Roma nel ‘70 la difendemmo meglio”.

Alludeva alla breccia di Porta Pia del 1870, quando Pio IX, pontefice di allora, chiese una resistenza poco più che simbolica contro i bersaglieri italiani che ponevano fine al potere temporale della Chiesa. Eppure quel 30 ottobre del 1922, giorno in cui 30 mila militi dell’esercito privato di Benito Mussolini erano confluiti a Roma da Santa Marinella e Monterotondo, diventando nella marcia più del doppio, lo spettacolo dovette apparire al prelato più una festa che un colpo di Stato.

 

 

Scontri politici, ce ne furono pochi: qualcuno a San Lorenzo con alcuni arditi del popolo che ancora non avevano smobilitato; per il resto quelle camicie nere si fecero notare per qualche intemperanza negli hotel e nei bordelli. La ragione era semplice: il vero “golpe” c’era stato due giorni prima, il 28 ottobre del 1922, quando Vittorio Emanuele III, re d’Italia, aveva dato l’incarico di formare il governo a Benito Mussolini, sotto la spinta di un Paese che era diventato una piazza d’armi. Esattamente cento anni fa, il vecchio Stato liberale moriva così, lasciando spazio a un altro, quello fascista, che avrebbe precipitato il Paese in venti anni di dittatura, nelle leggi razziali e nella seconda guerra mondiale.

 

 

Ma la sua agonia era iniziata prima: precisamente il 23 marzo del 1919, a piazza San Sepolcro, Milano. Qui un nugolo di ex combattenti, arditi, studenti e futuristi – c’è anche il poeta Filippo Tommaso Marinetti – si riunisce sotto il nome di “Fasci italiani da combattimento”, infiammato dalla prosa a scatti dell’ex direttore dell’Avanti, Benito Mussolini, cacciato per il suo interventismo dal Partito socialista italiano. È una piazza che, se non si è letto Sorel, capire è molto difficile. Le idee sono di sinistra, basti pensare che è presente anche il futuro segretario del Partito socialista italiano Pietro Nenni: si chiede terra ai combattenti, repubblica, voto alle donne e tassazione dei profitti di guerra.

Ma gli umori sono di destra.

Quella piazza odia la borghesia che si è arricchita alle spalle di chi ha combattuto in trincea, ma anche i socialisti che sputano sulle divise degli ex combattenti. Sullo sfondo l’inflazione, la guerra appena conclusa, una società scossa dalla violenza di chi è tornato dal fronte. Ed in pieno “biennio rosso”, con la carica eversiva del mito bolscevico, dove appena due anni prima Lenin aveva fatto la rivoluzione, anche i socialisti italiani più massimalisti si abbandonano ad aggressioni (poche), manifestazioni (tante), ma soprattutto retorica rivoluzionaria (troppa), tanto da allarmare la borghesia.

Ma in quel ‘19, dove tutto sembra possibile, persino la rivoluzione, quel migliaio di fascisti pensa più a difendersi che attaccare: e quando si presenta alle elezioni politiche dell’anno, non eleggendo alcun deputato, i socialisti inscenano persino un funerale di scherno tra le vie di Milano. Pensano: Mussolini è morto. Non è così.

Proprio quando il biennio rosso tramonta, con le occupazioni delle fabbriche fallite del settembre del 1920, il fascismo rialza la testa: le sezioni, da 88, diventano 834, gli iscritti, da 20 mila, diventano 250 mila. Tutto in pochi mesi. In quel movimento, dominato fino allora dall’ex combattente, ne subentra l’altro che lo caratterizzerà negli anni a venire, il più retrivo: quello agrario. Spaventati dalle occupazioni delle terre, vogliosi di farla finita con i “cafoni” – come nel Sud i lorsignori chiamavano i braccianti-, che si erano messi in testa di lottare per i propri diritti, figli e nipoti dei proprietari terrieri della Pianura Padana, della Toscana, delle Puglie entrano nei “Fasci”, portando, oltre ai soldi, anche idee e metodi: violenza, ottusità ideologica, odio di classe, disprezzo verso i socialisti e conservatorismo.

Il fascismo, fino allora quasi movimento di sinistra dissidente, diventa reazionario. Sotto la guida dei vari “ras”, Italo Balbo a Ferrara, Roberto Farinacci a Cremona, Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, lo squadrismo trasforma l’Italia in una piazza d’armi: i fascisti devastano le Camere del Lavoro, manganellano sindacalisti e politici, bruciano le cascine dove i militanti leggono Marx e discutono dei loro diritti. Altro che la vulgata secondo cui  “il fascismo ha ucciso solo Matteotti”: i morti di quegli scontri sono 3mila in pochi anni. Polizia e carabinieri, che vedono, lasciano correre simpatizzando con i mazzieri nella caccia al sovversivo. I governi che si susseguono, Giovanni Giolitti, Ivanoe Bonomi, e Luigi Facta, sono impotenti.

 

 

I partiti, nel caos: con il Psi in mano ai massimalisti di Giacinto Menotti Serrati, che non vuole il dialogo con i liberali, il Partito popolare di Don Luigi Sturzo che non parla con Giolitti, e i comunisti che, dopo la tragica scissione del ‘21, prendono ordine solo da Mosca. Il patto di pacificazione, che pure Mussolini aveva sottoscritto con i socialisti per frenare le violenze di ambedue le parti in lotta e riprendere in mano la violenza di un movimento che gli stava sfuggendo di mano, rimane lettera morta per l’ostilità dei ras che non vogliono alcuna pacificazione e alzano il tiro: costringendo i sindaci dei Comuni di sinistra, rivoltella alla mano, a firmare le dimissioni.

 

 

Nel solo ‘22 sono 365 i Comuni socialisti sciolti, uno al giorno. Ad opporsi allo squadrismo sono solo gli arditi del popolo, ardita milizia di ex combattenti, fiumani, anarchici, mazziniani, che combattono in armi l’impari lotta contro fascisti e polizia (che disarma i socialisti e lascia le armi alle squadre nere), gli avi dei partigiani. A poco serve la scissione del socialista riformista Filippo Turati all’inizio del ‘22, per offrire una collaborazione ai liberali e arginare insieme le violenze: sulla fedeltà dell’esercito (che pure potrebbe annientarli) c’è poco da sperare e il Re (forse) teme che Mussolini possa dare la Corona al cugino, il Duca d’Aosta.

I fascisti alzano il tiro, adesso vogliono il potere e minacciano una marcia per prenderselo con la forza. Poi il resto è storia nota: il “nutro fiducia” di Facta, lo stato di assedio lasciato sul comodino del sovrano, e mai firmato, la chiamata a Roma di Mussolini – che attendeva l’evoluzione al Nord, ancora timoroso che lo Stato battesse un colpo. Un colpo di Stato, fatto in accordo con lo Stato, dove contro il Palazzo si è evocato lo spettro di una Piazza, che poi era solo un manipolo di golpisti: tutto con la complicità silente di una borghesia che in nome dell’ordine, e soprattutto contro le rivendicazioni degli ultimi, ha deciso persino di sacrificare il bene più prezioso: la libertà.

 

Andrea PersiliPraticante giornalista

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