Processo al Cardinale Joseph Zen Ze-kiun di Hong Kong: una testimonianza del cardinale Filoni

L’attuale Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro ha vissuto a Hong Kong oltre otto anni e lì conobbe il porporato sotto processo quando era il Provinciale dei Salesiani. “Il Card. Zen non va condannato. Hong Kong, la Cina e la Chiesa hanno in lui un figlio devoto, di cui non vergognarsi. Questa è testimonianza alla verità”.

In un processo si intima: Chi può parlare, parli!

Anche Gesù non se ne sottrasse in un giudizio che avrebbe marcato la storia e la vita di un uomo che suscitava ammirazione e profondo rispetto religioso: Giovanni Battista.  Giovanni era in carcere e di lui si parlava ovunque, non senza cautela per timore di Erode; Erode, infatti, aveva mandato ad arrestarlo e lo aveva messo in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo: Non ti è lecito, gli diceva, tenere con te la moglie di tuo fratello! (cfr. Mc 6, 17-18).  Giovanni il battezzatore fu decapitato. La testimonianza di Gesù su Giovanni era chiara: Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa siete andati a vedere, un uomo vestito con abiti di lusso? Egli è più di un profeta; è un messaggero che prepara la via al Signore (cfr. Mt 11, 7-10).

Giovanni morì testimoniando la verità alla quale nessuno è superiore, rivendicando l’unicità della legge divina, recepita nella tradizione ebraica.

Anche Gesù pagò per la sua testimonianza alla verità: Che cos’è la verità? (cfr. Gv 18, 38), gli chiese Pilato ironizzando in un drammatico processo in cui il Nazareno era accusato di aver violato la sovranità di Roma e sul punto di essere condannato a morte.  Il verdetto fu emesso, e Gesù fu condannato ad una morte infame; ma quel processo, mai concluso, non sarà più dimenticato finché il Vangelo verrà annunciato sulla terra.  “Io sono la verità” (Gv 14, 6), aveva proclamato Gesù, ma alla valutazione di Pilato questo non interessava.  E se ne lavò le mani.

In questi giorni si celebra un altro processo.  A Hong Kong. Una città che ho molto amato per averci vissuto oltre otto anni.

Lì ho conosciuto Don Joseph Zen Ze-kiun.

Era il Provinciale dei Salesiani.  Un cinese tutto d’un pezzo. Intelligentissimo, acuto, dal sorriso accattivante.  Mi dicevano: “È uno shanghaiese”!

Gradualmente ne compresi il senso.  Allora, oltre a fare il Provinciale, era insegnante e come professore di filosofia ed etica era assai stimato.  Parlava perfettamente l’italiano; non solo la lingua, ma i modi erano vicini alla cultura europea che egli aveva conosciuto frequentando da giovane le scuole europee. Si diceva di lui: “È il più italiano dei cinesi e il cinese più italiano”. Ecco la sintesi, l’incontro tra due culture.

In realtà egli è rimasto cinese; mai ha rinnegato la sua identità.  E questo per me era molto bello e affascinante; mi rappresentava il prototipo di una interculturalità che mi richiamava alla memoria Xu Guangqi, un “Cristiano alla corte dei Ming” (Elisa Giunipero), o, per altri versi, l’acutezza del Vescovo Aloysius Jin Luxian, gesuita, vescovo di Shanghai al tempo di Deng Xiaoping e successivamente, che amava presentarsi come il “Nicodemo dei nostri tempi”. Ambedue shanghaiesi.

Shanghai è stata una città di martiri al tempo dell’occupazione stile nazista dei giapponesi; fu un periodo incredibilmente triste, carico di violenze e distruzioni che nessuno dimentica. Anche la famiglia del Card. Zen ne fu vittima, perse tutti i suoi averi e dovette fuggire. Il giovane Zen non ha mai dimenticato quella esperienza e trasse da essa coerenza caratteriale e stile di vita; e poi un grande amore per la libertà e per la giustizia. Shanghai fu eroica, ed eroi furono considerati, quasi intoccabili anche dal regime comunista, i suoi figli.  Il Card. Zen è uno degli ultimi epigoni di quelle famiglie.  Mai gli eroi andavano umiliati; era anche la mentalità dell’establishment cinese, come lo è in Occidente per le vittime del nazi-fascismo nostrano.

Negli anni ’90 Joseph Zen insegnava in vari seminari, ad Hong Kong e in Cina (Shanghai, Pechino, Xian, Wuhan). A Shanghai era stato invitato dal Vescovo Jin Luxian.  Accettò per il bene della Chiesa, martire, che risorgeva dal suo martirio e cercava la via della sopravvivenza; questa era flessibilità, non cedimento. Guardava avanti e non entrava in giudizio verso le persone: era la sua filosofia di vita; i sistemi politici – diceva – possono essere giudicati, e su di essi il suo pensiero era chiaro, ma le persone no; il giudizio è rimandato a Dio che conosce il cuore degli uomini.  Il suo rispetto e il sostegno alla persona è sempre stato il pilastro della sua visione umana e sacerdotale, e così lo è fino ad oggi, anche se in Hong Kong in questi giorni è tratto in giudizio.

L’integrità morale e ideale furono ritenute di altissimo livello quando Giovanni Paolo II lo nominò Vescovo e Benedetto XVI lo creò Cardinale.  Qualcuno lo ritiene caratterialmente un po’ spigoloso.  E chi non lo sarebbe davanti ad ingiustizie e davanti alla rivendicazione della libertà che ogni autentico sistema politico e civile dovrebbe difendere?

Devo testimoniare ancora due cose: il Card. Zen è un «uomo di Dio»; a volte intemperante, ma sottomesso all’amore di Cristo, che lo volle suo sacerdote, profondamente innamorato, come Don Bosco, della gioventù. Per essa è stato un maestro credibile. Poi è un «autentico cinese».  Nessuno, tra quanti ho conosciuto, posso dire, essere veramente «leale» quanto lui!

In un processo, la testimonianza è fondamentale. Il Card. Zen non va condannato. Hong Kong, la Cina e la Chiesa hanno in lui un figlio devoto, di cui non vergognarsi. Questa è testimonianza alla verità.

 

Cardinale Fernando Filoni – Gran Maestro dell’Ordine del Cavalieri del Santo Sepolcro

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