La lettura (non ancora terminata) di una monumentale biografia di Fernando Pessoa, opera dello statunitense Richard Zenith, traduttore e studioso pessoano, mi ha riportato alla memoria i miei studi di antropologia e storia delle religioni, ormai di antica data, ai quali mi appassionai grazie ai testi di maestri come Angelo Brelich, Vinigi Grottanelli, Giorgio Costanzo, Ernesta Cerulli, Italo Signorini. Quest’ultimo, il più giovane di tutti, scomparso a un’età in cui avrebbe potuto dare molto all’etnologia e in particolare agli studi sugli amerindi.
L’accostamento col più grande poeta portoghese del Novecento non suoni bizzarro. Tra gli interessi vastissimi da lui coltivati c’erano stati misticismo, esoterismo e persino occultismo, senza dire delle mappe astrologiche che erano diventate una sua passione.
Pessoa, sovvertendo un ordine biblico che parte dal profeta Daniele, affronta la complessa tematica del Quinto Impero. Ad essa, come si vedrà, sono legati concetti quali Sebastianismo e vocazione messianica, che nel Paese lusitano rivestono particolare significato storico.
Secondo la Bibbia, seguendo l’interpretazione del poeta millenarista (e calzolaio) portoghese del XVI secolo Gonçalo Bandarra, del gesuita portoghese del XVII secolo António Vieira, che riprende la tesi fra gli altri dell’abate cistercense e teologo calabrese del XII secolo Gioacchino da Fiore (che però aveva parlato di tre Età, del Padre, del Figlio e dello Spirito santo), il Quinto Impero è un mito messianico millenarista che avrebbe portato la fede cristiana in tutto il mondo, attraverso l’azione civilizzatrice di eroi e mistici lusitani.
L’impero della piccola nazione iberica sarebbe stato appunto il quinto e ultimo, che avrebbe agito per raggiungere la pace e la prosperità universali per un periodo di mille anni; passata questa fase, denominata “millennio di oro”, ci sarebbe stata la fine del tempo. Il profeta Daniele aveva scandito una successione formata dal Primo impero, babilonese, con al centro la figura di Nabuccodonosor, dal Secondo, dei Medi-Persiani, dal Terzo, dei Greci, seguito dall’Impero dei Romani.
Il Quinto, invece, ispirato dalle glorie marinare del Portogallo che al tempo delle grandi scoperte cominciate nel Quattrocento aveva ingrandito il mondo conosciuto, avrebbe avuto valore spirituale in tutto l’orbe terraqueo, finalmente abbracciato dalla forza divina. Nell’edificazione del mito (di Vieira e di altri), a fare da tramite, per così dire, tra l’operato divino e le aspirazioni degli uomini, si chiama in causa una figura che si potrebbe definire di profeta o di demiurgo, quella del giovane re lusitano Dom Sebastiano, che nella battaglia di Alcácer-Quibir (attuale Marocco), nel 1578, combattuta contro i Mori, fu da questi sconfitto e cadde in battaglia senza che il suo corpo fosse mai ritrovato.
Apertasi una grave crisi dinastica per la sua successione, ebbe origine uno dei miti più radicati nell’immaginario collettivo dei portoghesi. Il re, di cui mai è stata razionalmente accettata la morte, avrebbe deciso di celarsi ai vivi, che d’allora lo hanno appellato “il desiderato” o “il nascosto”, in attesa di entrare in azione e dar corso al disegno divino.
Dunque, più che profeta o demiurgo, un vero Messia.
Nell’opera Mensagem (Messaggio) Pessoa, d’accordo con Vieira, afferma che sarà il suo paese ad assumere il glorioso onere di realizzare la pace universale; ma, d’accordo con il tono generale di tutta la sua opera, non manca di contraddizioni e ambiguità, nell’intento, per lui di vitale importanza, di conciliare tutto con tutto, come prova di onnipotenza.
Ciò, per alcuni suoi esegeti, non esclude che sul piano evidentemente solo simbolico possa ritenersi egli stesso il Messia; ovvero il Sebastiano capace di ricevere un’investitura divina, nonostante che nel corso dell’opera sembri a tratti confermare la realtà dell’antico re (come personaggio, appunto, non come figura storica) e allo stesso tempo, in altri luoghi di Mensagem, affermi che Sebastiano è morto anche come simbolo.
Proseguendo nelle reminiscenze, ho ritrovato una serie di spunti (solo tali, ché ciascuno meriterebbe approfondimenti specialistici ben maggiori) che richiamano le idee messianiche.
In una quantità di àmbiti religiosi, fatte salve fondamentali differenziazioni, è del tutto centrale la figura di un Messia, sebbene in alcuni luoghi e in epoche diverse si sia potuto chiamare anche Messaggero, Profeta, Demiurgo, Tramite, Eroe civilizzatore, e altre denominazioni ancora. Un aspetto che, se le si considera dal punto di vista non fideistico ma storico-sociale, tutte le religioni hanno, è quello sincretistico, che per molti studiosi è la caratteristica forse più complessa e interessante su cui esercitare le proprie indagini e speculazioni.
Pensando alle scaturigini del cristianesimo, come lo può intendere oggi un comune fedele, è assai improbabile mettere a fuoco la fusione tra elementi di due sistemi teologici, quello ebraico e quello egizio, che sembrano ben lontani tra loro. Eppure le credenze messianiche e l’anelito a una vita eterna dopo la fine di quella terrena erano di derivazione egizia. Da circa 4.700 anni fa, 27 secoli prima di Cristo, il faraone era considerato il figlio di Ra, il dio cosmico. Tale rapporto implicava l’osservanza di un triplice rituale, riguardo alla venuta al mondo del figlio, alla sua unzione in concomitanza con l’incoronazione e alla resurrezione dopo la morte. E con l’unzione (non mediante olio di oliva, ma grasso del coccodrillo sacro del Nilo) era anche la purificazione con l’acqua e la imposizione dei nuovi nomi regali, che sanciva il transito alla categoria divina del re. Il trasferimento fondamentale era però quello all’altra vita, che sarebbe stata eterna.
Anche troppo evidente, quindi, l’analogia che esiste con il mondo cristiano, che giudica l’esistenza terrena appena un passaggio, rispetto all’importanza dell’aldilà al cospetto del Creatore. Elementi teologici e cultuali quelli giudaico-cristiani, come si vede, di cui è facile riconoscere notevoli antecedenti nell’ultra-mondo egizio. La stessa parola “messia”, “unto”, affermano alcuni specialisti, potrebbe essere arrivata all’ebraico “masiah” attraverso un termine precedente, “MeSeH”, che nell’antico egizio vuol dire coccodrillo.
Passando alla più recente delle tre cosiddette religioni del Libro, per gli sciiti, il principale tra i movimenti islamici minoritari rispetto ai sunniti, è fondamentale il ruolo del Mahdi, il loro Messia, “il ben guidato”. Il sottogruppo sciita più numeroso, dei tre che lo costituiscono, è rappresentato dai Duodecimani. Essi prendono il nome dal dodicesimo degli imam, vissuti tra il settimo e il nono secolo, i quali per dottrina e purezza di costumi rappresentano un modello ideale per tutti i fedeli e godono del privilegio di essere misteriosamente ma infallibilmente assistiti da Dio (Allah). Il dodicesimo, Muhammad al-Hasan, è detto “al-Mahdi”, appunto “colui che si è celato”. Ciò perché l’ultimo imam non lo si considera defunto, ma in attesa che direttamente da Allah gli venga prescritto di manifestarsi nuovamente agli occhi del mondo, per riportarlo allo stato di primigenia purezza, un passaggio che si definisce apocatastasi.
Anche i musulmani sunniti, che sono la larga maggioranza dei seguaci dell’Islam nel mondo, hanno la loro versione del Mahdi, ma questa figura, per loro che osservano alla lettera il Corano, non rappresenta uno dei fondamenti dell’Islam in quanto il Mahdi, sia pure di poco, è posteriore a Maometto, che dunque non può averne scritto nel sacro testo ispiratogli da Dio. In ogni caso il Mahdi gode di notevole seguito anche tra i sunniti e le sue funzioni sono analoghe a quelle che gli attribuiscono gli sciiti: la conquista del mondo, lo sterminio di tutti gli infedeli che non si convertiranno all’Islam, il perseguimento della legge e della giustizia coraniche.
Inviati celesti, Esseri superiori di eccezionale levatura spirituale, Maestri o addirittura Salvatori – ciascuno dei quali può ritenersi una ipostasi del Messia, sono apparsi, appaiono o appariranno, come ho già detto, in una pletora di pratiche religiose di ogni tempo e luogo. Nella leggendaria isola britannica di Avalon – dove crescono le mele, frutti che nella tradizione celtica sono strettamente collegati con una sorta di edenico iperuranio – Re Artù giace ferito, dopo un’aspra battaglia contro gli Angli e i Sassoni, circondato dalle sacerdotesse che lo accudiscono e curano le sue ferite mortali. Alla fine, ottenuto per intercessione di Cristo di superare la morte, resterà nascosto in qualche plaga celeste, da dove un giorno tornerà tra gli uomini per governare l’Inghilterra.
Il Brasile è terra di magie, teosofie, culti pagani ormai indissolubilmente fusi con la storia sacra cristiana, più o meno distorta o semplificata, anche da alcuni missionari, nel tentativo di rendere più accessibili alle popolazioni locali i fondamenti della fede che si voleva instaurare tra chi seguiva pratiche politeistiche.
Nel più grande paese dell’America latina, esistono numerosi esempi che attestano come l’idea di un Messia, un Tramite celeste, trovi tuttora grande seguito tra chi osserva i culti della santeria e quelli, ad essa collegati, portati dagli schiavi provenienti dall’Africa e, in particolare, dai nigeriani Yoruba.
Impossibile, in queste poche note, entrare nei particolari socio-culturali di pratiche devozionali e rituali che, per esempio, uniscono Giovanni “il Battista” a divinità Orisha; né si possono illustrare, solo per fare un altro esempio, le innumerevoli versioni del mito di Dom Sebastiano (di ovvia importazione dalla madrepatria lusitana) che, con altre figure carismatiche, opera messianicamente per il riscatto di poveri e diseredati, edificando “le città del paradiso terrestre” in cui finalmente i poveri, col sostegno della fede, potranno trovare il conforto di una esistenza dignitosa. Molti di questi centri di culto riflettevano piccole chiese locali, sparse nei 26 stati del Brasile, le quali fino a quando esisteva la schiavitù erano popolate da comunità sì di poveri, ma di condizione libera; sparute comunità che dopo il 1888 si infoltiscono esponenzialmente, in seguito all’abolizione della schiavitù.
Seguitando a muoverci liberamente attraverso il tempo e lo spazio, troviamo un Messia anche nel mondo romano. Testimone particolarmente attendibile ne è Virgilio, che nella quarta delle sue Bucoliche preconizza l’avvento di un Bambino prodigio che avrebbe riportato in essere l’età dell’oro attraverso il ritorno dei Saturnia regna (I regni di Saturno).
Nello zoroastrismo, la religione basata sugli insegnamenti di Zaratustra il Profeta, la figura del Messia è rappresentata da Saoshyant, che incarna elementi propri del giudaismo, del cristianesimo e dell’Islam. Al termine di un processo di redenzione cosmica che sarà durato alcune migliaia di anni, Saoshyant, a capo delle schiere del bene, affronterà per lo scontro finale gli eserciti del male, in uno scenario che ricalca la conflagrazione tra gli ebraici Gog e Magog. L’esito della battaglia però è scontato e il trionfo del bene darà inizio alla palingenesi del mondo.
Ancora una sintesi tra le prime due religioni del Libro, Giudaismo e Cristianesimo, ma con prevalenza della seconda, viene dall’Etiopia, al tempo unico stato africano indipendente. Tale sintesi, il Rastafarianesimo, ha però origine in Giamaica.
A concepirlo e guidarlo come movimento politico e sociale è l’attivista, scrittore e imprenditore giamaicano Marcus Garvey, che negli anni ’20 del Novecento preconizza il ritorno in Africa di tutti i discendenti degli schiavi neri che vivevano nelle Americhe.
Lo stesso Garvey ha la visione di un re di stirpe camitica che avrebbe salvato tutti i neri del mondo, individuandolo nella figura dell’imperatore etiope Hailé Selassié. Questi, che fa propri i princìpi concepiti da Garvey, nell’assumere la guida del movimento teosofico rastafariano ricalca molti dei fondamenti costitutivi della Chiesa ortodossa etiopica, riprendendo anche elementi propri del giudaismo, in particolare dei Falascià, appunto gli ebrei etiopici; tra questi, la venerazione per Re Salomone e per la Regina di Saba.
L’imperatore, anche chiamato Ras Tafari (“Capo terribile” in lingua amarica, da cui deriverà il nome del culto da lui fondato) diventa Negus Neghesti (“Re dei re”). Suoi attributi sono anche “Eletto di Dio”, “Luce del mondo”, “Leone conquistatore della tribù di Giuda”. Acquisito il titolo di Negus, Hailé Selassié viene adorato dai rastafariani come Gesù Cristo.
Di nuovo il Messia, ma questa volta nella sua seconda venuta, che considerando gli insondabili percorsi che il sacro compie nella mente e nelle azioni degli uomini, potrà non essere neppure l’ultima. Il Negus, che negli anni ’50 aveva compiuto un viaggio in Giamaica, ricevendo l’adorazione come Messia e profeta di una moltitudine di persone, morirà nel palazzo imperiale di Addis Abeba nel 1975. Ormai era già diventato un simbolo politico e religioso anche nell’isola caraibica lontana molte migliaia di chilometri dal Corno d’Africa, nella quale il rastafarianesimo, abbreviato spesso in semplice “rasta”, aveva avuto origine.
Negli anni ’70 e ’80, ormai radicatosi di nuovo in Giamaica, il Rastafarianesimo si diffonde per il mondo, come movimento nazionalista e insieme spirituale, anche grazie alla musica reggae, vessillifera della sua essenza. Oggi i rasta sono parecchi milioni, usano la marijuana come fonte di ispirazione divina e di meditazione e seguitano a venerare l’immagine di quel piccolo e indomito imperatore africano (il Negus era alto un metro e 57 centimetri), morto quasi mezzo secolo fa. Per molti di loro, Hailé Selassié non è defunto ma si è nascosto. Non è più il “Capo terribile”, ma un Messia entrato ancora una volta in sonno, che attende di tornare tra gli uomini per compiere la sua opera salvifica alla vigilia della fine del mondo.
Forti analogie col Rastafarianesimo, malgrado la grande distanza fisica e culturale, le presenta la Danza degli Spiriti, un culto messianico e sincretistico, che nell’ultima decade dell’800 si diffuse con incredibile rapidità in buona parte dell’America settentrionale (Usa e in misura minore Canada), nel grande mosaico etnico-tribale composto da quelli che si suole denominare “uomini rossi”, come gli indiani d’America oggi preferiscono essere chiamati.
Fondatore della religione, basata sulla commistione di elementi cristiani con la ancestrale spiritualità degli amerindi, fu Wovoca, un Sioux noto anche come Jack Wilson, dal nome di un allevatore cristiano timorato, che lo affiliò, adolescente, dopo la morte del padre. Wovoca riuscì a combinare i dettami di sette come gli Avventisti del Settimo Giorno e i Mormoni con la spiritualità dello sciamanesimo originario. Per propiziare il rapporto con il trascendente, Wovoca introdusse una nuova coreutica nelle danze tribali, che consisteva nel raggiungimento di uno stato di trance (non dissimile da quello dei “tarantolati” del Salento), mediante la percussione ossessiva e a velocità crescente dei tamburi rituali, che segnano il tempo vieppiù frenetico della danza eseguita in circolo dagli adepti.
Come i rasta usano la marijuana per aumentare la propria sensibilità e la meditazione, gli uomini rossi ricorrono a un’altra sostanza psicotropa ancora più potente, il peyote, che induce esperienze allucinatorie extrasensoriali, provocando visioni di tipo onirico in uno stato di semi-veglia. Ma le similitudini tra queste due religioni del continente americano, oltre al sincretismo tra riti tradizionali e cristianesimo, sono essenziali dal punto di vista “politico”. Anche per il culto fondato da Wovoca-Wilson l’aspetto teleologico, ossia della sua finalità, è dato oltre che dall’elevazione verso il Creatore anche dal ritorno allo stato edenico primigenio, favorito, come sempre, da un Tramite con il cielo.
Tra i primi ad abbracciare i culti diffusi da Wovoca ci fu il capo Sioux Toro Seduto (Sitting Bull), che oltre a praticare lo sciamanesimo portava al collo un crocifisso donatogli da un gesuita franco-canadese di cui era diventato amico. Il celebre guerriero fu ucciso a tradimento da due rappresentanti dell’Agenzia indiana, della sua stessa tribù ma collaborazionisti dei coloni bianchi. Sitting Bull, per parecchi anni, fu elevato a simbolo di Messia. Colui che con il suo ritorno avrebbe riunito i vivi con gli antenati, ritrovando con loro lo spirito combattivo necessario per liberarsi dalla presenza e dall’espansionismo dei bianchi colonizzatori, riportando sulla terra degli antenati le mandrie di bisonti sterminati dai “visi pallidi”, che con i bovini delle praterie avevano di fatto annichilito i popoli che da sempre da quegli animali dipendevano.
Per chiudere questa più che parziale rassegna sulle figure messianiche, mi è venuta in mente anche una nota familiare. Ricordava il mio nonno materno Giulio Natali (1875-1965), italianista e accademico di valore, che negli anni ‘30, in occasione di una sua lettura e commento del primo Canto dell’Inferno, presso la Casa di Dante a Roma, un tale, presentatosi come studioso dell’Alighieri, gli mostrò un libercolo, forse autoprodotto, che trattava la celeberrima questione del Veltro. Letteralmente, il segugio che incalzerà la lupa, simbolo di cupidigia e, per alcuni esegeti, di concupiscenza, ma nella simbologia medievale immagine messianica di un liberatore inviato da Dio, che avrebbe rimesso ordine nel mondo.
Ebbene, nel porgere il libretto al conferenziere, di cui avrebbe gradito un parere, l’autore spiegò che dopo grandi studi e riflessioni aveva concluso che il Veltro, ipostasi del Messia venuto a operare per i più grandi fasti della nazione, non poteva che essere Benito Mussolini. Il Nonno, che peraltro non aveva mai fatto mistero (a quel tempo) di essere fascista, disse che il Veltro restava uno dei grandi enigmi della Commedia, ricordando a quell’uomo che nessuno dei personaggi che in ipotesi erano stati identificati con il Veltro – Arrigo VII, Cangrande della Scala, Uguccione della Faggiuola, lo stesso Dante e altri ancora – era mai stato confermato da alcuno studioso. “C’è un limite all’adulazione. Bisognerebbe non dimenticare mai quel verso di Alessandro Manzoni che parla di ‘servo encomio’. Voi forse lo conoscete…”, gli disse.
Carlo Giacobbe – Giornalista, scrittore