Montanelli e il suo “Il Giornale”, 50 anni dopo. Lo racconta il libro Come un vascello pirata

Il grande giornalista raccontato con le sue parole e anche con il ricordo di chi scrive questo articolo

Se ne parla da mesi e se ne parlerà per mesi della “differenziata”. Non della separazione dei rifiuti, importantissima, ma dell’autonomia particolare che le regioni possono chiedere “à la carte” (riciclabile) adesso che il Parlamento, per uno scambio di favori non disinteressati tra i partiti della maggioranza, ne ha approvato la legge attuativa.

Beh, Indro Montanelli, che intendo ricordare alla buona perché ci vorrebbe un Montanelli per parlare di Indro al suo livello, avrebbe certamente fulminato i sodali della “differenziata” con uno dei suoi editoriali rabdomantici. Tre partiti, chiamandosi Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nazionale, avallano tuttavia la possibilità di spezzettarlo il Bel Paese, e di farlo regredire alla condizione preunitaria nella quale l’aveva relegato per millequattrocento anni la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Il nostro Machiavelli (l’avrà letto il ministro della “differenziata”, Calderoli?) chiuse “Il Principe” nel 1513 auspicando che si avverasse la profezia di Petrarca: “Virtù contra furore prenderà l’arme; e fia ’l combatter corto: ché l’antico valore nell’italici cor non è ancor morto.” L’auspicio, come sapevamo dalle scuole elementari sia di Montanelli sia delle mie, fu raccolto dai patrioti del Risorgimento che realizzarono la profezia nel 1860: Italia unita e indipendente.

Non sembri stravagante la digressione. Fatto sta che per celebrare i 50 anni de Il Giornale con le parole del suo fondatore, Luigi Mascheroni ha pubblicato il libro “Come un vascello pirata” (Rizzoli, 2024, pag. 275, € 18), che però tratta del ventennio 1974-1994 in cui il fondatore del Giornale ne fu non solo il direttore, bensì molto più, identificandosi l’uno nell’altro. Tramite le vicende del Giornale e del suo fondatore-direttore, impeccabilmente narrate con acribia di storico e con arguzia montanelliana nel saggio introduttivo “Una sfida incosciente e necessaria” di Mascheroni, la storia dell’ultimo quarto del ’900 ritorna vivida nei magistrali editoriali di Montanelli, nei suoi strepitosi “Controcorrente”, nelle parole di (insospettabili) amici. Da questo libro trarrò le citazioni del mio articolo. Lo dichiaro subito non solo per debito verso Montanelli e rispetto verso Mascheroni. Pure perché sarebbe impossibile fare di meglio nelle circostanze evocate. Gli episodi mi sono rimbalzati nella memoria come palline di flipper perché dal primo giorno fui uno dei lettori-sostenitori del Giornale.

Ebbene, all’avanzata sulla scena nazionale della Lega Nord, padana, saldamente nelle mani del leader Bossi, l’8 giugno 1993 Indro bolla i leghisti con l’editoriale “I cosacchi del Po”, notando che “i risultati dell’altro ieri hanno soltanto anticipato un’Italia divisa in tre: un Nord in mano alla Lega, un Centro alla mercé dei comunisti (ex o neo, non importa), un Sud in preda al caos. In questa situazione, cosa farà Bossi? Cioè, cercherà di frenare la spinta che fatalmente ne verrà alle tentazioni secessionistiche della Padania dal resto del Paese, o la seconderà? A differenza di Miglio, Bossi di secessione non ha mai parlato. Parla di ‘federalismo’, e forse lo ritiene possibile. Noi crediamo che il federalismo sia soltanto la foglia di fico della secessione, e che nei precordi di molti leghisti covi una gran voglia di fare i cosacchi del Po.” Ecco l’aggancio: la digressione non è tanto digressiva. Il regionalismo differenziato è un lungo processo storico antirisorgimentale che dal 1970 (regionalismo ordinario) giunge al 2001 (regionalismo rinforzato), spacciato per devoluzione federalista, e tocca l’apice nel 2024 con la “legge Calderoli” che porta a perfezione l’assurdità del progetto. Il Vecchio, così in redazione chiamavano Indro, aveva visto giusto trentun’anni prima. Quel che paventava sta accadendo oggi sotto i nostri occhi. Gl’Italiani dovranno affidarsi al referendum popolare per fermare la deriva secessionista irragionevole, ingiustificata, pericolosa, conflittuale, antistorica.

Questo non è stato né il primo né l’ultimo caso nel quale gli eventi successivi hanno dimostrato la lungimiranza di Montanelli contro la brevimiranza degli uomini avversi al Giornale, specialmente dell’establishment politico-culturale che dominò la scena dei tempi montanelliani del Giornale. Indro rivendicò sempre ed a buon diritto, infatti centrò il bersaglio nelle intenzioni e nei risultati del suo magistero giornalistico, “la natura anticonformista che faceva della sua creatura una voce fuori dal coro”. Spiegò che “fu una battaglia dura e difficile, che ci ha lasciato addosso parecchie cicatrici, e non parlo soltanto di quelle materiali. Per tutti gli anni Settanta, e per i primi Ottanta, noi fummo indicati alla pubblica esecrazione come i fascisti, i golpisti, in una parola i lebbrosi. E forse saremmo ancora nel ghetto – scriveva nel 1991- in cui ci avevano relegato, se a trarcene fuori dandoci completa ragione non fossero sopravvenuti i fatti”.

Luigi Mascheroni aggiunge e sottolinea: “Lavorare al Giornale, dicono ancora oggi i montanelliani sopravvissuti (quorum ego, n.d.r.), o leggerlo, come ricordano i lettori ‘fin dal primo numero’, (quorum ego, n.d.r.) rappresentò per i primi un atto eroico, per i secondi un gesto eretico.” Non per enfasi retorica Mascheroni definisce “eroi” i giornalisti che lavoravano al Giornale con Montanelli. Molti di loro, a cominciare da Indro, giravano armati per difesa personale in quegli anni di piombo. Montanelli, il comandante del “vascello pirata”, fu gambizzato dai terroristi e schernito dai loro fiancheggiatori, sia appartenenti alla stampa concorrente, sia alla borghesia comunisteggiante, spesso un tutt’uno. Eppure era il principe del giornalismo italiano oltreché il più famoso in patria e all’estero.

 

Indro Montanelli

Tutti erano schierati, salvo la maggioranza silenziosa, che sonnecchiando aspetta sempre chi ne vinca la ritrosia con minacce o lusinghe o ambedue. Sparavano a destra e sinistra, in ogni senso. I morti bilanciavano i morti non sui piatti della giustizia ma sulla stadera del fanatismo. Il vento della contestazione sessantottina aveva gonfiato le vele ai rivoluzionari inselvatichiti che scambiavano la mummia del comunismo per una fanciulla in fiore. Era il tempo in cui il liberalismo, l’economia di concorrenza, il libero scambio, che avevano arricchito l’Occidente devastato dalla guerra mentre il bolscevismo affamava l’Oriente collettivizzato, registravano due acerrimi nemici: i capitalisti vergognosi e gli anticapitalisti svergognati. L’intellighenzia, come l’intendenza degli eserciti o il loro naturale corteggio di meretrici, seguiva illudendosi di guidare. Pensatori, scrittori, giornalisti liberali erano respinti e confinati nella bolgia dei reprobi oppure precariamente in salvo sul “vascello pirata” chiamato Il Giornale. Le pagine in cui Mascheroni ricorda quali e quanti prestigiosi collaboratori arricchissero Il Giornale dimostrano che quelle firme italiane e straniere rappresentavano la crema della cultura liberale del tempo. Montanelli vi tracciava l’intransigente rotta politica del suo vascello pirata, ormai possente veliero al vento della “libertà dei liberali”, come non mi stanco di chiamarla.

La luce venne, appunto, dalla brusca sterzata di Indro Montanelli, che lasciò il “Corriere della Sera” e il 25 giugno del 1974 fondò Il Giornale, una vera impresa in senso economico, giornalistico, politico, culturale, che quasi gli costò la vita. Come confidò dopo l’attentato, compiuto da rivoluzionari comunisti, fu salvato dal voler morire in piedi. Aggrappatosi alla cancellata, i colpi di rivoltella gli bucarono le gambe anziché il petto. I terroristi ignoravano che l’airone vola sull’ala. La verità è che in quegli anni Il Giornale di Montanelli fu per me, e per migliaia d’altri Italiani, non soltanto un quotidiano, ma un vero partito, il partito dei liberali che a viso aperto, senza simpatie per il contrapposto estremismo di destra, avversavano l’estremismo di sinistra e i suoi corifei. Comprare quel giornale, leggerlo ostentatamente, lasciarne in giro qualche copia significava militare concretamente per il “nostro” partito. Aspettavamo con ansia il fondo del direttore. Ce lo comunicavamo. Lo commentavamo. Uno scialo.

Da ragazzo di paese compravo il “Corriere della Sera” all’edicola della stazione. Così presi la cotta per Montanelli. Poi m’innamorai perdutamente di lui divorandone la storia e le storie. Ero diventato, senza accorgermene, un “indrocefalo”. Sicché, quando da perfetto sconosciuto inviai un elzeviro al “Giornale” e lo vidi pubblicato in prima pagina, godetti un momento di assoluta felicità. Trattava il tema degli acronimi, stimolatomi dalla tabella di un autobus romano nella quale era scritto “P.zza Venezia”. Gli piacquero assai gli accostamenti e le variazioni tra i due più celebri acronimi della storia, ritengo, cioè INRI e SPQR, e una tabella di torpedone dove una fronte bassa aveva pensato di economizzare due lettere con un punto, trasformando una “piazza” in una “pizza”, almeno di cacofonica pronuncia.

Con Cesare Zappulli, l’editorialista economico del Giornale, diventai amico. Fu naturale: lui divenuto senatore del Pli, io militante liberale e consigliere del Senato. Gli chiesi che m’introducesse a Montanelli, quando venisse a Roma. Così, nella redazione romana di Piazza di Pietra, finalmente lo incontrai. Stava scrivendo qualcosa. Cesare, interrompendolo, gli disse pressappoco: “Indro, qui c’è Di Muccio che collabora pure con noi e mi tormenta da un pezzo per conoscerti.” Montanelli lasciò di scrivere, scostò la sedia e s’alzò in piedi, sormontando me bassino con tutta la sua altezza. Mi porse la mano con gentilezza e cortesia, quasi gl’importassi. Tra due parole di circostanza, proprio due, confessai di essere un “indrocefalo”. Ne fu stupefatto. Sbarrò gli occhi al modo suo, come sa chi l’ha conosciuto. E tornò a sedersi e scrivere, mentre Zappulli m’accompagnava alle scale.

D’abitudine compravo ogni mattina due copie del Giornale, che non mi rendevano affatto simpatico nel Senato della Repubblica. Una copia la deponevo sul grande tavolo rotondo campeggiante al centro della buvette, dove erano esposti alla lettura tutti i quotidiani della giornata. Il Giornale vi durava i minuti della mia presenza per il caffè. Qualcuno poi dava ai commessi l’ordine di farlo scomparire in ossequio alla “pluralità e completezza dell’informazione”, il totem dell’arco costituzionale che nondimeno tollerava persino il fascista Secolo d’Italia del repubblichino Almirante, ma non Il Giornale liberale di Montanelli. Analogamente facevo sui treni e nelle sale d’aspetto. Lasciavo una copia per potenziali lettori che mai l’avrebbero acquistata. In ciò devo essere stato influenzato dalle mie origini partenopee. Infatti, alla stregua del “caffè sospeso”, che un cliente offre pagandolo ad un cliente sconosciuto, io regalavo una copia del Giornale ad un ignoto lettore e forse a più d’uno.

 

Molti editoriali di quelli selezionati da Luigi Mascheroni contengono il ritratto di leader famosi, italiani e stranieri, di personalità della cultura, di giornalisti e imprenditori, di registi e attori. Il ritratto è uno dei generi nei quali Indro eccelleva senza paragoni. In due o tre pagine scolpisce con le parole i caratteri fondamentali del personaggio, in un perfetto chiaroscuro di pregi e difetti. Moro, Berlinguer, Andreotti, Bossi, Fanfani, Leone, Longanesi, Sciascia, Ferrari, De Mita, Renato Curcio, Pannella, Maria José di Savoia, Moravia, Fellini, eccetera. Tanto quelli che hanno vissuto mentre costoro erano vivi, quanto quelli che li hanno conosciuti dopo, in altro modo, saranno sorpresi di scoprire lati personali e storici delle loro vite che la penna di Montanelli porta alla luce descrivendone sfumature nascoste ed inaspettate.

I Controcorrente, poi, “forse sono i pezzi più riconoscibili di Montanelli, anche se non firmati. Poche righe, in corsivo, in prima pagina. Un commento sagace, ironico, sferzante a un fatto del giorno, non necessariamente di cronaca nazionale. Montanelli amava scriverli, i lettori amavano leggerli. Si dice che permettesse solo a pochi di farli al posto suo.” Mascheroni ne ha selezionati una sessantina dalla ventennale produzione di Montanelli. Sceglierne qualcuno da citare qui è difficilissimo anche perché, per gustarli appieno, bisogna considerare se vi si riscontri una perdurante attualità. Mi aiuta il ricordo di alcuni di quelli che più mi colpirono il giorno che li lessi. Sì, bisogna dirlo, il Controcorrente correvano a leggerlo tutti. Era la prima cosa che i lettori cercavano in assoluto. Comunque, ecco “i miei” Controcorrente.

Stanislaw Kania, il neo rieletto primo segretario del Partito comunista polacco, non gode delle simpatie dei sovietici. Questo spiega una battuta che circola a Varsavia: “Il compagno Kania ha tentato di uccidersi, ma non c’è riuscito perché i russi non l’hanno trovato in casa”. (20 luglio 1981)

Ormai sono tutti d’accordo; per l’Italia, il rimedio è nell’urna. Speriamo di non trovarci le ceneri. (12 novembre 1982)

Che Craxi sia uomo di grandi capacità e ambizioni, lo si sapeva. Che sia anche uomo di grande coraggio, lo si è visto ieri, quando pronunciava alla Camera il discorso di replica. Per due volte si è interrotto alla ricerca di un bicchier d’acqua. Per due volte Andreotti glielo ha riempito e porto. E per due volte lui lo ha bevuto. (13 agosto 1983)

Sulla porta di una chiesa evangelica in Germania è stato affisso, per Pasqua, l’ammonimento: “Ama il prossimo tuo”. Una mano ignota ha aggiunto: “Non posso, lo conosco”. (22 aprile 1984)

Churchill disse una volta che “non esiste democrazia senza un minimo di corruzione”. Purtroppo, è su questo minimo che in Italia regna il massimo dell’incertezza. (5 marzo 1988)

Da Praga Bettino Craxi proclama che “bisogna liberare l’Italia da Falci e Martelli”. Benissimo. Ma chi è Falci? . (17 dicembre 1989)

Gli studenti italiani manifestano rumorosamente per la pace e contro la guerra. La guerra, diceva Clemenceau, è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari. Ma anche la pace è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai pacifisti. (20 gennaio 1991)

Caro direttore, le rubo un po’ di spazio”, ha scritto Craxi all’Avanti. Incorreggibile Bettino: perfino al giornale del suo partito. (22 febbraio 1993)

In un’intervista alla “Stampa”, Giorgio Bocca ha detto che io sono un bravissimo giornalista che non capisce nulla di politica. Bocca non mi delude mai. Riesce sempre a dire di me quello che io penso di Lui. (20 maggio 1993)

L’altro ieri, se avessimo fatto in tempo, avremmo ricordato al presidente Scalfaro quello che, dei servizi segreti, diceva Lord Balfour: “Sono come le donne: si può credere solo a quello che tacciono”. (5 novembre 1993)

Giovedì sera annuncio a sorpresa di Emilio fede nel suo Tg4: “Adesso – ha detto – voglio parlarvi d’informazione”. C’è sempre una prima volta. (8 gennaio 1994)

 

L’ultimo capitolo del libro è intitolato “Montanelli nelle parole di (insospettabili) amici” e contiene il ricordo di Indro lasciato da Pier Bergonzi, Pier Luigi Bersani Marzio Breda, Alberto Casiraghy, Tony Damascelli, Diego Gabutti, Jocelyn, Giampiero Mughini, Stella Pende, Enrico Vanzina, Mara Venier. Il più singolare di tali ricordi ed anche ben scritto, ironico come l’uomo, appartiene a Pier Luigi Bersani, inaspettatamente. Dopo la vittoria dell’Ulivo nel 1996, Bersani diventa ministro delle Attività produttive e riceve il messaggio che Montanelli è curioso d’incontrarlo. Bersani, pur da posizioni diverse, ammira il giornalista Montanelli e “in più si trova ad essere genero di un montanelliano in purezza”, che da sempre gli conserva gli articoli del direttore nel timore che gliene sfugga qualcuno. Il pranzo fu molto parco. Montanelli mangiava meno di un uccellino.

Alla fine, Indro disse a Bersani che non si sarebbero liberati di Berlusconi. Bersani scrive di aver temuto che la frase fosse profetica, “come in effetti fu.” A quel punto Montanelli gli domandò: “Come si chiama suo suocero?” “Gino”, risposi. “E lui tirò fuori un foglietto su cui scrisse: “Caro Gino, stia tranquillo che suo genero è un ragazzo perbene”. Chi l’avrebbe immaginato che Montanelli potesse essere chiamato dal suocero di Bersani ad attestargli che la figlia aveva sposato un bravo ragazzo?

 

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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