Mal d’Africa, riscoprire il Continente con un libro di Giancarlo Capozzoli. Anche per sfatare pregiudizi e alcune distorte visioni. Tanti dati interessanti

Kenya dove la vita è il bene più prezioso è il titolo del nuovo libro di Giancarlo Capozzoli, giornalista dell’Espresso, che ha colto la realtà dello Stato kenyota realizzando ritratti di un mondo da noi ancora molto distante. Una percezione, quella dell’Africa, che in noi occidentali è completamente distorta e piena di pregiudizi che precludono la scoperta di altri modi di intendere la vita. Abbiamo intervistato Giancarlo sul suo ultimo libro e su questo affascinante continente che nasconde molte sorprese.

Cos’è il mal d’Africa?

La cosa che bisogna tener presente è che quando si va a visitare questi posti che sono completamente distanti dal nostro mondo, dal nostro benessere e dalla nostra cultura ci si ritrova a mettersi in discussione in termini di scambio con le persone e con la natura circostante.

S’impara quindi a rimettersi in gioco ed il mal d’Africa ti resta appiccicato addosso semplicemente perché quando poi torni alla vita quotidiana si perde quello spirito che si è trovato in un viaggio di scoperta di posti e persone ma anche di se stessi.

L’Africa è però anche un posto con mille difficoltà e con un ambiente ostile perché mancano le infrastrutture e quei comfort a cui siamo abituati ma anche per le temperature che sono completamente diverse dall’Europa e dall’Occidente.

Sotto il punto di vista delle relazioni umane c’è tutto un altro modo di intendere la vita: ci sono ragazzini e ragazzine con un’aspettativa di vita spesso molto bassa, economica e culturale che però poi hanno una pienezza d’essere che i ragazzini qui in Occidente viziati dalla tecnologia e dal comfort dimenticano o non hanno conosciuto.

Nella  narrazione giornalistica cos’è che non viene colto dell’Africa? Quello che ci arriva in Europa spesso è molto diverso…

Spesso si parte con dei bias culturali e dei pregiudizi che in qualche modo ci fanno andare alla ricerca di risposte ad alcune domande e questo è un problema anche di molti che raccontano l’Africa. Sono veramente pochi i giornalisti, come Kapuściński, che forse hanno capito quella realtà perché hanno saputo abbandonare impunemente questo tipo di domande e non sono andati alla ricerca di risposte ma si sono trovati invece di fronte a domande completamente nuove o diverse.

Ancora oggi molti colleghi si recano in Africa in cerca di risposte, senza però rendersi conto del mondo intorno a loro. Quando sono stato in Africa ho alloggiato in un resort con il comfort occidentale ma uscivo dalla struttura alle 6 di mattina e tornavo la sera perché volevo immergermi completamente in questa realtà, se non si sporcano le mani è difficile poi capire e cogliere l’essenza di un Paese.

L’Africa però non è una realtà monolitica, ovviamente, ci sono tante Afriche

Quando parliamo di Africa parliamo di più culture che sono distanti tra di loro ma questo vale per ogni realtà: prima di occuparmi di Africa mi sono occupato tantissimo di carcere sull’Huffington Post e per poter trattare l’argomento mi recavo più volte nella settimana al carcere di Rebibbia che mi portava a contatto diretto con la realtà dei detenuti permettendomi di cogliere le difficoltà e la purezza delle carceri.

Come mai si è focalizzato così tanto sul Kenya?

Ero già stato in Marocco, in Senegal per seguire dei progetti, a Zanzibar per progetti di cooperazione e poi una piccola ong italiana che si occupava di cooperazione sanitaria mi invitò a seguire il loro lavoro in Kenya. Io non c’ero mai stato prima di allora e ho accettato l’invito, mi interessava e m’intrigava come qualsiasi altro paese africano. All’inizio ero un po’ scettico perché questa ong lavorava a Malindi, sulla zona costiera del Kenya: un posto molto turistico e ricco.  Temevo che avrei colto poco poi di questo Paese ma una volta sul campo ho però avuto occasione di seguire molti progetti, come quelli della Caritas.

È difficile parlare poi di un’unica velocità per l’Africa, però ci sono degli obiettivi che sono comuni per queste popolazioni. Quali saranno le grandi sfide del futuro dell’Africa?

Il problema dell’Africa è che è un Continente ricco di risorse, che a parte le risorse ha ben poco.

Questo per colpa anche di noi occidentali e del colonialismo francese, olandese, belga, inglese e tedesco: non abbiamo fatto altro che sfruttare il territorio senza pensare ad un modello di sviluppo anche della classe politica, sociale e culturale di questi paesi che sono ancora oggi privi di infrastrutture.

Ci sono Paesi, soprattutto una parte del Maghreb, dove per fortuna si vive una realtà diversa, anche grazie al commercio. Poi ci sono Paesi come il Kenya dove il 95% della popolazione vive in condizioni di povertà estrema: mancano servizi base come scuole e sanità, questi Paesi hanno bisogno di investimenti per poter sviluppare realmente una loro autonomia e indipendenza, ma soprattutto per creare una formazione, un’educazione in una classe politica che al momento sembra ancora lontanissima e nel frattempo la corruzione dilaga.

In molti casi si verificano rapimenti, come quello di Silvia Romano in Kenya, perché noi bianchi siamo visti come “dollari che camminano” e abbiamo soldi che loro non hanno. Per fare un esempio restando in Kenya, lo stipendio più alto è di 100 euro al mese.

In Kenya, in particolare, la Cina ha portato qualche sviluppo?

La Cina ha costruito il porto di Mombasa, quello più grande dell’Africa.

Avere un così grande porto mercantile significa avere accesso di beni e servizi a tutta quella zona d’Africa, il problema è gestire il commercio con Paesi come il Camerun, Angola e parte anche del Corno d’Africa.

È stata costruita anche una ferrovia da Mombasa a Nairobi, il personale del treno è cinese e a fianco alla bandiera kenyota c’è anche quella della Cina. C’è una presenza cinese ben radicata, mentre noi occidentali cerchiamo di portare avanti un discorso sui diritti umani i cinesi sono interessati a stabilire rapporti con governi e gestire infrastrutture senza altri scopi, non hanno intenzione di operare con il soft power con le realtà locali perché non sono interessati.

E invece l’Unione Europea e l’Italia come possono contribuire ancora di più rispetto al presente.

Aumentando ancora di più i progetti di cooperazione e di sviluppo imprenditoriale con quelle realtà e al tempo stesso operando sulle realtà locali in termini di formazione della classe sociale e della classe politica. Se si vanno a creare scuole e un minimo di formazione avrai dei lavoratori che guadagnano stipendi più alti ma che saranno soprattutto più consapevoli e potranno conoscere e rivendicare i propri diritti.

 

Francesco Fatone – Pubblicista

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