Nel 1970 era entrato intanto in vigore l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione
Il notiziario “4a rete” andò così anche alle Giunte e ai Consigli delle regioni. Ma questo, secondo noi, non bastava e si pensò di dar vita a notiziari regionali che raccogliessero le notizie di interesse regionale e le distribuissero nella regione. Era un modo di contribuire al democratico processo di sviluppo delle realtà locali che l’ordinamento regionale aveva messo in moto; e di dare sia un alimento sia un mezzo di espressione alle mille voci in cui quelle realtà si manifestavano: politiche, amministrative, sindacali, economiche, culturali.
I destinatari erano non solo i giornali locali, ma anche organi amministrativi (per esempio, le Giunte comunali dei capoluoghi di provincia), economici o sindacali (società, associazioni) e quel mondo ancora fluido, ma in via di assestamento, che era il mondo delle nascenti televisioni private. A tutti il notiziario locale veniva trasmesso accompagnato dal notiziario “4a rete”, che garantiva il minimo indispensabile di informazione italiana ed estera.
L’Ansa si stava rafforzando anche ai vertici giornalistici. Accanto al vicedirettore per i servizi esteri Arrigo Accornero venne nominato un vicedirettore per i servizi italiani, Fausto Balzanetti. Accornero e Balzanetti erano in agenzia dal 1945. I redattori capo – Bruno Caselli, Sergio Chizzola e Nino Jodice – furono nominati redattori capo centrali, per distinguerli dai capi delle redazioni specializzate. Intorno a me avevo una squadra eccellente, ma gli impegni e i progetti stavano procedendo in tempi per altri versi difficili, che comportavano attenzione, fermezza di idee e prontezza di decisioni.
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Era scoppiato il Sessantotto e la storia stava cambiando. Pajetta furibondo al telefono
Il guaio era che molti non se ne erano resi conto. Un giorno il centralinista dell’agenzia mi passò una comunicazione. “Viene dal Pci” disse. “Vergogna!” gridò il telefono, e così forte che lo sentirono altri nella mia stanza. “Vergogna! L’Ansa ha trasmesso un falso! È una indegna provocazione della Spes contro il Partito comunista”. La voce dentro il telefono era di Giancarlo Pajetta; la Spes (l’acronimo di «Sezione propaganda e stampa») era un ufficio della Democrazia cristiana; la notizia Ansa che l’alto esponente comunista denunciava come falsa riportava il testo di un manifesto affisso dentro la città universitaria di Roma: il primo attacco, da sinistra, al Pci.
Il mondo stava cambiando, l’Italia stava cambiando, le università cominciavano ad agitarsi, si stava formando una sinistra estrema ed extraparlamentare. Ma Giancarlo Pajetta, membro da sempre della segreteria politica del Pci, evidentemente non se ne era accorto, e come lui – si può supporre – nessuno degli alti dirigenti del più grande partito comunista occidentale. “Vergogna” mi ripeté con voce irata, “Vergogna”.
Furono anni pesanti per tutti; anche per me come direttore dell’Ansa
Ho sempre detto che dirigere un’agenzia come l’Ansa non è difficile. Basta fare corretta informazione, cioè completa e imparziale, e tener conto e rispettare tutte le componenti della sua struttura sociale di cooperativa fra i quotidiani. Facile, no? Ma da quegli ultimi anni Sessanta e per molti degli anni seguenti nacque una grossa difficoltà per i redattori dell’agenzia e per il direttore che aveva la responsabilità giornalistica, e quindi anche politica e penale, dell’informazione distribuita ai giornali: la veridicità di molte informazioni, cioè di molti fatti di cui si aveva notizia. C’erano versioni diverse; quale quella giusta? Non sempre c’era la possibilità di attribuirle a qualche fonte sicura.
Raccontavamo i fatti, cercando di essere più asettici possibile; ma sul significato di quei fatti ero spesso imbarazzato, non come direttore dell’Ansa ma come cittadino. Di fronte all’esplosione giovanile che in forme diverse si era manifestata in tutto il pianeta le reazioni erano per la maggior parte negative. Io invece la pensavo diversamente. Forte della lezione storicistica di Benedetto Croce, ritenevo che quello che è accaduto non può non accadere, e se è accaduto significa che doveva accadere. In quelle rivolte dei giovani di tutto il mondo mi sembrava di vedere un comune denominatore: l’opposizione all’autoritarismo e a una società che si presentava come una società violenta o, per lo meno, oppressiva. Violento e oppressivo appariva infatti anche a me il generale sistema di valori (o pseudovalori), che continuava senza scosse dal secolo prima, come se non ci fossero state due guerre mondiali, il fascismo e il nazismo, i lager dell’Olocausto e i gulag dello stalinismo, la fine del colonialismo e l’avvento oppressivo delle multinazionali
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Secondo me, il Sessantotto aveva dato un segnale: la storia stava cambiando
In quegli anni, giorno dopo giorno – senza aspettare il 31 dicembre del 1999 – finiva il secondo millennio e cominciava il terzo. Fu un errore non capire quello che c’era dietro la rivolta dei giovani, al di là dei loro errori e delle loro insensatezze. Non capire fu un errore anche per un altro motivo. Alla fine di maggio di quell’anno 1968 l’Ansa trasmise una notizia a cui, lì per lì, non fu dato peso. Diceva che due nuove scritte erano apparse sui muri di un edificio universitario a Roma: “Il potere sta sulle canne dei fucili” e “Armi agli operai e agli studenti”. Ce ne ricordammo qualche tempo dopo, quando cominciarono gli anni che dal titolo dal film di Margarethe von Trotta qualcuno chiamò “anni di piombo” e che forse sarebbe più giusto chiamare gli “anni della follia”.
Per l’Ansa la giornata era piena di problemi. I quotidiani che fino ad allora si erano presentati come giornali di informazione, diventarono giornali di parte. Qualcuno diceva che bisognava fare non informazione ma controinformazione. Per evitare contestazioni da destra e da sinistra, all’Ansa si usarono espedienti perfino un po’ comici. A Roma si misurò la superficie in metri quadrati delle piazze dove si svolgevano le manifestazioni. I cronisti (da qualche tempo andavano in giro protetti da un giubbotto antiproiettile) accertavano quanti erano mediamente i manifestanti in ogni metro quadrato; una semplice moltiplicazione ne dava così il numero complessivo, difficilmente confutabile. Un sistema che fu poi adottato anche dalla Questura.
Difficile non era questo. Ancora una volta, difficile era raccontare fatti di cui nessuno di noi era stato testimone oculare. Difficile, cioè, era avvicinarsi quanto più possibile alla verità attraverso le testimonianze o le versioni di altri. Com’era caduto Giuseppe Pinelli (dicembre 1969) da una finestra al quarto piano della questura di Milano? Com’era morto Giangiacomo Feltrinelli (marzo 1972), trovato alla base di un traliccio dell’energia elettrica nei pressi di Segrate? Com’era stato assassinato il commissario Luigi Calabresi (maggio 1972) davanti alla sua abitazione a Milano?
I cronisti e i redattori dell’agenzia cercavano di capire, ricostruendo il fatto sulla base di quello che veniva detto dai testimoni e dalle varie fonti, ufficiali e non ufficiali; e riferendo, tra virgolette, le versioni, spesso contrastanti, degli uni e degli altri. Ma quando, il giorno dopo, guardavamo i giornali, anche i grandi quotidiani nazionali, constatavamo che la “verità” di quei giornali era un’altra. Giuseppe Pinelli- si sosteneva – era stato buttato di sotto da un agente, forse dallo stesso commissario Calabresi. Giangiacomo Feltrinelli era stato ucciso altrove (dai fascisti? dai Servizi segreti?) e poi portato sotto il traliccio. Luigi Calabresi era stato colpito da un killer di destra; forse era stato vittima di un complotto organizzato, attraverso i fascisti, direttamente dalla Cia.
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Il racconto della realtà fatto dall’Ansa e il racconto dei giornali. Le telefonate delle Brigate rosse
Noi dell’Ansa ogni giorno ci domandavamo inquieti com’era che la realtà fotografata dall’agenzia non corrispondeva a quella che appariva sui giornali; e com’era che i giornali erano così pieni di certezze, mentre noi eravamo così pieni di dubbi Le informazioni disponibili, le informazioni sicure erano le stesse per l’Ansa e per tutti gli altri. Gli indizi erano sempre vaghi (e spesso inquinati – si seppe anni dopo – da certe autorità “deviate”). Di prove, nell’immediato, non ce n’era quasi mai nessuna. Eppure leggevamo ogni giorno brillantissimi pezzi di noti e valenti giornalisti che sul nulla riuscivano a costruire grandiose architetture interpretative; tutte schierate da una parte, naturalmente.
Ogni tanto arrivava una telefonata all’Ansa: “Siamo le Brigate rosse; in una cabina telefonica in piazza Tal dei Tali c’è un nostro comunicato”. Avvertivamo la questura e poi un cronista si precipitava sul posto, cercando di arrivare almeno un attimo prima degli agenti che avrebbero sequestrato il documento. Fa parte del mestiere: non perdere la notizia. Erano documenti sconcertanti, sia per i contenuti, sia per il linguaggio; ma erano una notizia. Sapevamo che le Brigate rosse ce li facevano conoscere proprio perché fossero pubblicati; e sapevamo quindi che pubblicarli significava fare da cassa di risonanza dei programmi di un’organizzazione criminale. Qualcuno ebbe un’idea: semplice, i giornali non li pubblichino; anzi, ancora più semplice: l’Ansa non li trasmetta ai giornali.
L’idea di un “black out” – come fu sùbito detto per il solito vezzo di usare espressioni straniere – sollevò un dibattito fra gli “addetti ai lavori”. Alcuni giornali, col supporto di autorevoli sociologi ed esperti di comunicazioni di massa (e anche di qualche autorità, amante della censura in nome della tutela dell’ordine pubblico) erano d’accordo nello “staccare la spina”; altri no. E l’Ansa? Nei trent’anni di direzione dell’agenzia quella fu la decisione più sofferta. Ci pensammo un po’; poi decidemmo: primo, i comunicati delle Brigate rosse sono documenti di una realtà che è bene sia conosciuta e studiata da tutti; secondo, in una società democratica qualsiasi forma di censura, anche a fine di bene, può essere pericolosa. Su questo fummo tutti d’accordo, noi dell’Ansa: direzione, redattori, comitato di redazione; ma nessuno ne fu felice; e tutte le volte che ci arrivavano quei maledetti fogli di carta con quella maledetta intestazione “BRIGATE ROSSE” e, fra “brigate” e “rosse” la stella a cinque punte inserita in un cerchio, era una sofferenza mandarli in trasmissione.
Ci consolava solo il vedere che quei testi erano poi usati nel dibattito culturale e politico e nell’analisi di un fenomeno di cui era necessario capire le radici e le motivazioni.
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Un momento difficile, forse il più difficile, fu quello del sequestro di Aldo Moro
Cinquantacinque giorni di agonia per lui, cinquantacinque giorni di angoscia e di trepidazione per tutti noi; specie quando le Br ci fecero avere le quattro lettere di Moro col suo appello disperato alla trattativa. Erano documenti drammatici e sconcertanti. Molti democristiani sostenevano che si trattava di lettere apocrife o perché non volevano riconoscere le esplicite accuse da lui fatte al suo partito oppure perché non volevano accettare una figura umana che da questi scritti appariva molto diversa da quella fino ad allora conosciuta.
Che si trattasse di lettere autentiche lo sostenevano i familiari. Lo pensavo anch’io, che vedevo in quelle lettere il veritiero ritratto di un uomo che, dietro un grande e sofferto e ammirevole patrimonio culturale, finalmente svelava un temperamento che, per quel poco che lo conoscevo, mi era apparso debole e insicuro. Fu uno dei pochi casi in cui un documento rimase per qualche minuto sul mio tavolo prima di essere trasmesso. Leggevo quelle frasi: “Siamo quasi all’ora zero. Mancano più secondi che minuti. Siamo al momento dell’eccidio”. Che fare? Poco dopo, quelle strazianti parole erano sulle telescriventi dei giornali in Italia e nel mondo.
Il 9 maggio alle 13.59 l’Ansa trasmise una notizia: “Un cadavere in una macchina è stato trovato in via Caetani, una traversa delle Botteghe Oscure”.
Alle 14.04:”L’on. Moro sarebbe la persona trovata morta”.
Alle 14.13: “È confermato che Aldo Moro è stato trovato morto in una Renault4 rossa in via Caetani”.
Poco più tardi l’agenzia trasmise una foto, scattata da un fotografo dell’agenzia, Rolando Fava, dalla finestra di un appartamento al primo piano in via Caetani. È la fotografia che ha avuto il maggior numero di riproduzioni nel mondo. Qualcuno sostiene che la foto più diffusa, perfino sulle t-shirt, è quella di Che Guevara. Ma quello del Che è un ritratto. Quella di Moro è una foto di cronaca. La ricordiamo tutti. Si vede la Renault4 con lo sportello aperto del portabagagli, nell’interno il corpo di Aldo Moro supino, la testa reclinata a sinistra, la mano destra abbandonata sul petto. Una foto terribile.
( fine terza puntata)
Mario Nanni ( a cura di )-Direttore editoriale