La cultura è una sola, ma i linguaggi possono essere diversi.
La cultura scientifica se non è alimentata dallo spirito critico della cultura umanista si rattrappisce e
produce il paradosso di una trasparenza ingannevole privandosi dello strumento essenziale per
conoscere davvero il mondo che pretende di regolare.
In un contesto come quello odierno tanto immiserito, parlare di due mondi dicotomici, quello umanista e quello scientifico, si manifesta come esempio eclatante di una regressione culturale che preclude la possibilità stessa di comprendere quanto lo spirito critico, integrato, e interdisciplinare sia sempre più necessario.
Una contrapposizione nata tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento tra scienze morbide e scienze dure ancora oggi accentuata dalla constatazione che gli scienziati sono protesi a muoversi verso il futuro e che gli umanisti guardano piuttosto al passato. Con la rivoluzione industriale, nasce la geometrizzazione del mondo, già presente in Platone con il suo motto: “Dio è sempre geometra”, dove trionfa la precisione quantitativa, la vittoria del quantitativo sulla qualità, il rifiuto del mondo del pressappoco.
Ma come noi tutti sappiamo, non tutto il conoscibile è misurabile. Sarebbe più logico, come ha sottolineato Rovelli, parlare di “incultura scientifica”così come di deficit di cultura classica per il campo contrapposto. Entrambe sono necessarie e la loro separazione rappresenta un anacronistico equivoco intellettuale.
Come sosteneva Albert Einstein, scienziati e filosofi hanno gli uni bisogno degli altri. I fenomeni culturali, e fra questi anche quelli umanistici, possono essere studiati con metodo scientifico e quindi essere validabili come molte teorie suggeriscono.
Le culture umanistiche e scientifiche sono parte integrante dello sviluppo economico ed umano e occorre quindi riscoprire in Europa il microcosmo dell’umanesimo italiano, plasmato da un ibridismo culturale trasversale, che tutto il mondo aperto nella sua complessità ci riconosce ed apprezza.
Quante volte ci siamo posti la domanda: è realmente vero? Si tratta di un approccio applicabile sia
alle scienze sociali che a quelle scientifiche, discipline apparentemente lontane ma caratterizzate da
un unico comune denominatore che ci permette di collegarle in un amalgama coerente: il pensiero
critico.
Come i nani sulle spalle sui giganti, basti pensare all’antica Grecia, alla figura emblematica ed eclettica del filosofo-scienziato Anassimandro o nel nostro Rinascimento italiano agli eclettici Galileo Galilei o Pico della Mirandola.
Ho incontrato tanti giovani nella mia carriera da professore e scienziato e ho sempre sostenuto l’idea
di far nascere e sviluppare in loro un pensiero critico e non una scelta di contrapposizione
paradigmatica tra scienze dure e scienze morbide.
Inoltre, negli ultimi anni il rapporto fra i saperi è radicalmente cambiato al di là dalla nostra volontà. Oggi la ricerca di frontiera si basa sul principio che Bohr ha definito della complementarità, quando osservava che moto e posizione di una particella sono grandezze complementari. La complementarità, quindi, non è contraddizione, ma attenzione nel mettere insieme le cose.
Un esempio di solare evidenza è rappresentato dallo scienziato moderno che non vive più isolato dalla società nel suo laboratorio, ma la sua curiosity-driven dovrà essere sempre più suffragata dal confronto aperto e su scala globale fra “pari”, istituzioni pubbliche, private e cittadini.
Un’interazione fra discipline umanistiche e scientifiche che si scopre anche in uno specifico campo applicativo, quello dei progetti di ricerca gestiti dai Dipartimenti secondo i nuovi indirizzi di valutazione ministeriale.
Perché, come ha sottolineato Steve Jobs nel 2011, “nel futuro ci sarà il matrimonio fra tecnologia e
arti liberali, cioè saranno i saperi umanistici del passato, a darci il risultato che ci fa sorgere un canto
nel cuore”.
Luigi Nicolais – Professore emerito Università “Federico II” di Napoli