Le due Culture? Dibattito anticipato, e dicotomia risolta, in Italia da un geologo-umanista

Con questo contributo di Antonio Salvati, prosegue il dibattito sulle due culture in corso su BeeMagazine, con la partecipazione di esponenti della cultura umanistica, scientifica e della cultura socio-politica. In questo articolo vengono ricostruiti i termini e il contesto storico della "disputa", che si fa risalire come inizio ai primi del ‘900.

Spesso la storia restituisce in maniera frammentaria i termini di un dibattito tanto articolato come quello nato attorno alle Due culture.

In questo fecondo filone di discussione ci sono almeno tre elementi che vengono dati per certi: il 1959 come data di “fondazione” del tema, il mondo anglosassone come luogo di emanazione di tale riflessione e il fisico Charles Percy Snow, quale “padre” della definizione.

Sono questi i punti di partenza di una ricostruzione di un contesto storico necessaria soprattutto se l’intento, che è il mio, è quello di dimostrare come il tema delle Due culture fosse stato sollevato, e risolto per quanto possibile, proprio in Italia. E quasi cinquanta anni prima del 1959.

Anche Charles Percy Snow, lo scienziato-letterato al quale si deve la definizione che tanta fortuna raccolse a partire dal 1959, spiegò come “a varie riprese, negli anni ’50, Jacob Bronowski aveva trattato con vivacità molti aspetti di questi problemi. Nel 1957 Merle King aveva pubblicato un articolo – di cui ebbi conoscenza solo molto più tardi – che anticipava cose molto simili al contenuto della prima parte della mia conferenza. Educatori di professione, come A. D. C. Peterson, avevano fatto quasi la stessa cosa. […] Nessuno di noi, però suscitò reazioni”.

“Due anni più tardi venne il momento giusto: ed uno qualsiasi di noi avrebbe potuto sollevare un gran chiasso, questo fatto ci richiama alla mente le misteriose operazioni di quello che, nel diciannovesimo secolo, veniva indicato con reverenza come il Zeitgeist”. The Two Cultures era il titolo dell’intervento di Snow tenuto, il 7 maggio del 1959, nella sala del Senato di Cambridge particolarmente gremita per l’annuale Rede Lecture.

Qualche anno prima Snow aveva pubblicato due articoli che anticipavano quei contenuti. Il primo, il 6 ottobre del 1956, sul settimanale “News Statesman” dal titolo The Two Cultures, il secondo, il 10 e 17 marzo del 1957, sul “Sunday Times”. Ampi stralci della sua relazione vennero successivamente pubblicati dalla rivista letteraria mensile “Encounter” (maggio 1959 e fascicoli seguenti).

Il tema della riflessione era che la vita intellettuale, nella società occidentale, fosse andata sempre più strutturandosi in due gruppi contrapposti. Da una parte “i letterati, che come per caso, senza che nessuno se ne accorgesse, cominciarono ad autodefinirsi “intellettuali”, quasi non ce ne fossero altri” e dall’altra gli scienziati, “i più rappresentativi dei quali sono i fisici”: “Tra questi due gruppi, un abisso di reciproca incomprensione: qualche volta (particolarmente tra i giovani) ostilità e disprezzo, ma soprattutto mancanza di comprensione. Gli uni hanno un’immagine stranamente distorta degli altri […] Sia le accuse che vengono mosse da una parte, sia quelle che vengono lanciate dall’altra contengono qualcosa di non del tutto privo di fondamento. Ma esse sono tutte distruttive”.

Perché era necessario che tra le due culture ritorni il dialogo? L’esigenza, rilevata dallo scienziato nella sua conferenza, celava una visione economico-politica di respiro globale: attuare la rivoluzione scientifica nei paesi poveri (Snow indica l’India, l’Africa, l’Asia sudorientale, l’America Latina e il Medio Oriente) in meno di cinquant’anni. Per far questo e, soprattutto, prima che lo facesse il mondo comunista, Snow invoca una “santa alleanza” tra Stati Uniti e Inghilterra.

Due gli elementi necessari per realizzare questo progetto: i capitali e gli uomini. Di questi ultimi, scienziati e ingegneri specializzati, “siamo ancora sprovvisti, è necessario che ricevano un’educazione non solo scientifica, ma anche umana, Essi non potrebbero fare il loro mestiere se non si scrollassero di dosso ogni traccia di paternalismo”.

Snow sottolineava come fosse una necessità colmare la frattura tra le due culture ma non ne indicava i modi, se non evocando genericamente una riforma del sistema educativo. Anni dopo ammise che una soluzione non esisteva: “Non esiste, naturalmente, nessuna soluzione completa. Nelle condizioni proprie della nostra età – o di qualunque età possiamo prevedere -, non è più possibile l’uomo rinascimentale”.

Dopo il successo (e le relative polemiche) Snow ripubblicò The Two Cultures arricchendolo di un ulteriore intervento pubblicato nel 1963 su “The Times Literary Supplement”: The Two Cultures and a second look: an expanded version of the two cultures and the scientific revolution (1964).

Fu proprio questo testo a giungere in Italia, grazie a Feltrinelli che ne fece due edizioni (luglio 1964 e gennaio 1965), con prefazione di Ludovico Geymonat che scrisse: “Come il lettore vedrà fin dalle prime pagine di questo affascinante volumetto, lo Snow si preoccupa più di descrivere che non di spiegare l’attuale profonda incomprensione fra umanisti e scienziati”.

Nel 2008, “The Times Literary Supplement” ha inserito il testo di Snow tra i cento libri che maggiormente hanno influenzato il dibatto in Occidente dalla Seconda Guerra Mondiale.

Nel 1907 la casa editrice Bocca di Torino pubblica in Italia il volume Terra Madre, l’autore era Giuseppe De Lorenzo, scienziato di professione, umanista per vocazione. In esso si legge: “i fioriti capitelli dell’arte del pensiero umano, che è un’efflorescenza della terra stessa; la quale ha prodotto p.es., il genio di Shakespeare con uno sforzo non meno titanico e poderoso di quello, che è stato necessario per ammassare l’Etna o per corrugare l’Himālayo”.

Questi concetti furono ripresi e ampliati ne La terra e l’uomo, volume accolto con favore dalla critica e dal pubblico, come dimostrano le cinque edizioni in un arco temporale lungo 35 anni: la prima è datata 1912 e fu edita dalla casa editrice Ricciardi in Napoli. Le successive due – 1919, quella rivista e ampliata dall’autore, e 1920 – furono stampate da Zanichelli in Bologna. Le ultime due – 1946 e 1947 – apparvero a Roma con la casa editrice Faro che chiese a De Lorenzo di rivedere e curarne personalmente la riedizione: queste due edizioni, infatti, contano 390 pagine rispetto alle 602 originarie.

Nell’agosto del 2018 la casa editrice napoletana OXP, ha curato e pubblicato una edizione anastastica dell’opera impreziosita da una premessa del professor Francesco De Sio Lazzari.

Ci sono diversi aspetti che accomunano Giuseppe De Lorenzo e Lord Snow: l’infanzia povera (conseguenza della morte di entrambi i genitori per De Lorenzo), la professione (scienziati entrambi: il primo geologo, fisico il secondo), la passione per la scrittura, la consapevolezza della condizione individuale dell’uomo (“caratterizzata dal dolore – secondo De Lorenzo – tragica” per Snow) e la necessità di superare l’esistente dicotomia tra le scienze umanistiche e le lettere da un lato e le scienze cosiddette esatte dall’altro.

Cinquant’anni prima di Snow, De Lorenzo scriveva in Terra Madre: “Sovente mi si rimprovera di mescolare in alcuni miei scritti il sacro col profano: la scienza con l’arte e la filosofia. Il sacro naturalmente è dato a volta a volta dall’una o dall’altra delle tre, secondo che ci giudica è, o si sente, scienziato, artista o filosofo. E non v’è dubbio, che in un dato genere di lavori il rigoroso metodo scientifico renda superflua, se non dannosa, ogni digressione artistica o filosofica; ma v’è un’altra parte dell’attività intellettuale, in cui chi contempla e rappresenta un fenomeno naturale non è un secco scienziato od un artista, ma è il soggetto della conoscenza, che guarda il suo oggetto con occhi umani, scorgendovi singolarmente ed insieme quei diversi aspetti dell’umana cognizione, che si sogliono chiamare di scienza, d’arte o di filosofia”.

Ma è nella Terra e l’uomo che questa visione pervade ogni singolo capitolo tanto da far esclamare al geologo e paleontologo Geremia D’Erasmo: “Sono capitoli di vera e propria geologia? O, piuttosto, di vera e propria letteratura? O, anche, di vera e propria filosofia?  Sono tutto ciò insieme, in splendida fusione di nobile lega”.

La terra e l’uomo fu un volume accolto con favore dalla critica e dal pubblico. Il filologo Paolo Savj-Lopez recensì il volume sul “Giornale d’Italia” del 9 luglio 1912: “De Lorenzo più che elaborare un pensiero metafisico, ama sentire artisticamente la sua dottrina filosofica”. Lo scrittore Aldo De Rinaldis, sul “Mattino” del 10-11 luglio 1912 scrisse: “Il geologo parla con il linguaggio dell’artista: supera i limiti della scienza, poiché i risultati di essa sono divenuti sentimenti profondi nel suo spirito […] ci fa seguire la genesi della natura come nelle scene di un dramma senza fine; e la voce della più nobile saggezza antica vibra nell’alto come l’espressione suprema di quelle forze naturali seguite e colte nella loro drammaticità profonda”. Il traduttore e poeta Giovanni Rabizzani, sul “Marzocco” del 7 agosto 1912 sottolineò come: “Il De Lorenzo mi dà motivo a queste inebrianti analogie, con un suo recente volume La terra e l’uomo, cui occorre collegare strettamente l’altro, uscito nel 1907, Terra Madre: due opere in apparenza di divulgazione scientifica, in realtà tali che la scienza vi si trasfigura sotto l’afflato della poesia e della religione”. Louis Gillet, storico e accademico di Francia, parlando della Terra e l’uomo intitolò il suo articolo, pubblicato sulla “Revue des deux mondes” il 16 gennaio 1925, Un petit-fils de Lucrèce. M. De Lorenzo.

Giuseppe De Lorenzo sottolinea, con forza, l’esistenza di un legame spirituale tra la Terra e l’uomo, un legame che si riflette in particolari e tipiche realtà creative. La Terra – “che tutti gli esseri mette alla luce, li cresce e alla fine ne raccoglie il turgido boccio” come invoca Elettra davanti alla tomba del padre Agamennone – può essere considerata: “Come un corpo vivente, soggetto anch’esso al nascere, al trapassare, al morire. […] Questa analogia di vita tra la terra ed i corpi degli animali, e quindi degli umani, induce ad immaginare anche un’analogia di struttura tra il corpo della terra e quello dell’uomo. Forse sarà solo il caso, ma a sintetizzare al meglio le caratteristiche uniche della produzione scientifica e filosofica di Giuseppe De Lorenzo fu proprio un suo collega, il geologo ligure Gaetano Rovereto (1870-1952) che scrisse: «De Lorenzo è il più filosofo dei nostri geologi e il più geologo dei nostri filosofi”.

De Lorenzo erige un ponte tra le regioni della scienza e quella della filosofia così come auspicato – molti anni dopo – da Snow. De Lorenzo parte dall’interno della scienza, che se da un lato è semplice conoscenza empirica di vari ordini di fenomeni legati tra loro e per questo non appaga quei bisogni dell’animo umano che trovano espressione nei sentimenti morali, dall’altro è: “la conoscenza esatta, per quanto esteriore, delle forze e dei fenomeni operanti intorno a noi, e, liberandoci dalle illusioni e dalle imposture, ci aiutano a guardare con occhi tranquilli e mente serena il mondo, di cui facciamo parte, dando così anche forza e saldezza al nostro spirito”.

De Lorenzo, così, anticipa anche un altro grande scienziato, il chimico russo ma naturalizzato belga, Ilya Prigogine, premio Nobel nel 1977, che affrontò il tema della mancata comunicazione tra il mondo degli scienziati e quello degli umanisti. Nel 1979 scrisse La nuova alleanza, dove sottolineò la possibilità, attraverso il recupero dell’importanza di fattori quali il tempo, di sancire un nuovo patto tra uomo e natura.

Giuseppe De Lorenzo, ben prima di Snow, era conscio che uno dei limiti della propria attività di scienziato era il linguaggio. L’eccessivo utilizzo di tecnicismi, ad esempio, rappresentava un limite nella divulgazione di temi di natura scientifica. Non solo: spesso l’esasperazione di questa forma di linguaggio – scriveva – nascondeva una vera e propria mancanza di certezza scientifica: “Ma noialtri, gente di scienza positiva, incantati dai simboli matematici, affascinati dalle notazioni, chimiche, sedotti dal tecnicismo fisico, sentiamo, come si sa, prepotente il bisogno di esprimere con termini tecnici le nostre opinioni, specialmente quando sono ipotetiche”. E ancora: egli sapeva, e non esitava a mettere in guardia i lettori, che nelle ricerche scientifiche, dietro ad ogni enigma sciolto, se ne presentano altri cento che sembrano rendere imperscrutabile l’essenza della natura stessa.

Non è un caso che diversi degli scritti che formano i capitoli de La terra e l’uomo erano stati pubblicati su quotidiani a diffusione nazionale come il Corriere della Sera o riviste letteraria di grande spessore come Il Marzocco.

Il pensiero scientifico di Giuseppe De Lorenzo somiglia tanto a un fiore di loto il cui stelo si eleva verso le regioni della metafisica. Ne è dimostrazione “Tremiti della Terra”, articolo pubblicato in La terra e l’uomo (pp. 27-32). Elencando le teorie fisiche addotte per spiegare la formazione dei terremoti, l’occhio di De Lorenzo si sofferma su quelle che sono le conseguenze dell’evento: in un primo tempo dolore e morte, ma “appena passata la grande crisi mortale, la vita ripiglia senza esitare la sua opera infaticabile e la prosegue senza posa né tregua nel giro continuo dell’universo senza principio né fine”.

“In questo gli uomini somigliano agli infimi della scala animale: i polipi ed i loro polipai. Le grande isole madreporiche sono immensi cimiteri, in cui per secoli si sono accumulate le spoglie di miriadi e miriadi di polipai; e sul sommo di tali cimiteri, attaccati alle spoglie dei loro morti progenitori, crescono e costruiscono e si moltiplicano gli ultimi polipi […] Così l’inestinguibile sete di vivere, che non vede e non sente a lungo il dolore, afferma sulla morte l’esistenza”.

Ma è, probabilmente, nel capitolo intitolato “La polvere” (pp. 33-37) che il pensiero scientifico di De Lorenzo trova la sua sintesi migliore. Qui le qualità artistiche dello scienziato donano una visione ispirata alla contemplazione della terra nei mutevoli aspetti del suo divenire.

“La congregata polvere chiamata uomo”, è l’incipit, mutuato da Byron, che apre il capitolo. L’espediente narrativo è tratteggiato a tinte luminose: Napoli, pomeriggio d’estate, via Caracciolo incorniciata dal blu del mare e del cielo con il Vesuvio in lontananza.  È in questo momento che la brezza marina fa levare, verso Mergellina, una nube di polvere. Questa visione porta l’osservatore in uno stato di profonda meditazione. “Quella polvere è un estratto del mondo?” si chiede De Lorenzo che ricorda quando, ventenne, lesse le parole di Schopenhauer: “Conoscete voi questa polvere? Sapete ciò che essa è e che essa può? Imparate a conoscerla prima di disprezzarla. Questa materia […] sciolta nell’acqua si solidificherà come cristallo, splenderò come metallo, darà scintille elettriche, si plasmerà da sé in pianta od animale e dal suo misterioso grembo svolgerà quella vita, della cui perdita voi siete così angosciosamente preoccupati”.

La mutevolezza, la buddhista aniccâ, diventa a tutti gli effetti un postulato della geologia filosofica di De Lorenzo: “La storia o la visione della continua mutabilità, cui è stata, è e sarà soggetta la superficie organica ed inorganica della terra”. Mutabilità che si osserva nelle forme e nei fenomeni del mondo esteriore e che è facilmente individuabile anche nel mondo interiore. “Non sono le montagne, le onde e di cieli una parte di me e dell’anima mia, come io di loro?”, diceva Byron.

“La maggior parte degli scienziati da me conosciuti hanno sentito […] che la condizione individuale di tutti noi è tragica. Ciascuno di noi è solo: talvolta sfuggiamo alla solitudine con l’amore o l’affetto o, forse, in certi momenti di creazione, ma questi trionfi della vita sono piccole zone illuminate che ci creiamo, mentre il margine della strada rimane avvolto nell’oscurità: ciascuno di noi muore solo”.

È questo uno dei passaggi della conferenza di Snow che fece molto discutere, ma è anche il punto che tratteggia in maniera più marcata quella ideale comunità d’intenti con Giuseppe De Lorenzo. Fu la precoce esperienza del dolore a favorire l’incontro tra De Lorenzo e il buddhismo antico.

Aveva solo sei anni quando perse la mamma e a tredici rimase orfano. Quindicenne, allievo al ginnasio, iniziò a leggere Il Buddha di Carlo Puini. “L’immagine del giovine principe, che per primo aveva visto il dolore del mondo e s’era perciò ritirato dal mondo, non mi si partì più dalla mente”, ricorda lo stesso De Lorenzo. Immagine ancora più marcata quando, compiuti gli studi universitari, si dedicò alla lettura approfondita di Schopenhauer. Il filosofo di Danzica non fu il solo autore occidentale che De Lorenzo interrogò nella sua personale ricerca di una soluzione al problema del patire. Basta scorrere l’elenco delle opere da lui pubblicate e gli studi che compì su alcuni autori per comprendere l’attenzione che De Lorenzo rivolgeva a chi, scoperta o solamente intuita la dolorosa legge della vita, si confrontò con essa nel tentativo di meglio comprenderla.

L’incontro con gli insegnamenti buddhistici produsse opere come India e Buddhismo antico o come la traduzione in italiano dei testi antichi: su tutti il Majjhimanikâyo a tutt’oggi l’unica versione italiana esistente che fece da testo base per Julius Evola nella Dottrina del Risveglio.

Il punto che fece maggior presa sullo scienziato De Lorenzo fu la ferrea struttura logica con cui Buddha presenta il problema del dolore e ne propone una cura. Perché il buddhismo, secondo De Lorenzo, è prima di tutto un metodo “così semplice, chiaro e determinato, che non ha bisogno di alcun’altra spiegazione, chiarificazione o commento”.

Un metodo che gli permetta di applicare il frutto delle sue riflessioni all’uomo e all’universo tutto.

“L’universo – scriveva De Lorenzo – rappresenta un numero infinito di elementi distinti e transitori. Questi non si trovano in uno stato di essere statico, ma in uno stato d’incessante divenire. […] La realtà consiste in un punti-momenti che formano una catena di avvenimenti od incidenti, legati insieme dall’intelletto”.  Lo scienziato De Lorenzo raggiunge dunque la conclusione che: “Considerare una terra, un sole, una stella come identità e corporeità finite è così vano come considerare definite le nostre personalità. Come in noi, così nell’infinito universo e mondi vi sono tensioni, che noi, per l’infinità del tempo e dello spazio inerente alla nostra ragione, consideriamo come identità ed individualità, per la nostra più facile intellezione. Ma esse – continua De Lorenzo – hanno solo significato sintomatico, non sono che forme, in cui si manifestano determinate energie”.

Giuseppe De Lorenzo, per sensibilità letteraria, per i temi oggetto della sua speculazione filosofica e per i frutti della sua originale riflessione, va inserito a pieno titolo nel panorama filosofico-intellettuale dei primi cinquant’anni del Novecento. E lo è, anche, per l’elaborazione di un linguaggio originale in grado di colmare lo iato tra le due culture teorizzate da Snow diversi anni dopo.

Giuseppe De Lorenzo fece esperienza della morte il 27 giugno del 1957 all’età di 86 anni. Il giorno precedente, aveva chiesto alla figlia adottiva Anna di leggergli “alcuni discorsi di Buddha […] e le due poesie sepolcrali di Leopardi che svolgono i medesimi concetti della labilità delle forme”.

 

Antonio Salvati – Giornalista

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