Le donne e la scienza. Una storia di pregiudizi e discriminazioni. E riguarda anche i premi Nobel

Il 6 dicembre 2021, nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, si è svolta la cerimonia di conferimento del premio Nobel 2021 per la fisica, assegnato al professore Giorgio Parisi per i suoi studi sui sistemi complessi, precisamente, com’è scritto nella motivazione, «per la scoperta dell’interazione fra disordine e fluttuazioni nei sistemi fisici dalla scala atomica a quella planetaria».

Altri due premi Nobel per la fisica sono stati assegnati anche a Syukuro Manabe e a Klaus Hasselmann, per la modellizzazione fisica del clima terrestre e per l’affidabile previsione del riscaldamento globale. A causa della pandemia di Covid-19, per il secondo anno consecutivo i premi Nobel, che per tradizione sono consegnati dal re di Svezia in una solenne cerimonia presso il Konserthuset di Stoccolma, sono stati conferiti nel Paese di residenza dei vincitori.

Giorgio Parisi è il sesto scienziato italiano a ricevere il premio Nobel per la fisica, dopo Guglielmo Marconi nel 1909, Enrico Fermi nel 1938, Emilio Segré nel 1959, Carlo Rubbia nel 1984 e Riccardo Giacconi, italiano ma naturalizzato americano, nel 2002.

Professore emerito di Fisica teorica nell’Ateneo romano e, dal 2018 al 2021, Presidente dell’Accademia dei Lincei, Parisi era stato insignito nel 1999 della Medaglia Dirac e nel 2021 aveva ricevuto anche il premio Wolf per la fisica; le sue pubblicazioni, che sono di fondamentale importanza per la fisica dei sistemi complessi, hanno tra i più alti indici di citazioni a livello internazionale.

Lo studio dei sistemi complessi, che sono caratterizzati da una molteplicità di elementi e da un comportamento caotico, con dinamiche non dipendenti dalle singole componenti, ma dalle modalità delle loro interazioni, consentono applicazioni anche in ambiti al di fuori della fisica, dalla biologia alle neuroscienze.

A 120 anni dalla fondazione del premio, ideato e istituito nel 1895 da Alfred Nobel (1833-1896), il chimico svedese famoso per l’invenzione della dinamite, ma assegnato per la prima volta nel 1901, nessuna scienziata è risultata vincitrice del premio, e ciò si è verificato non soltanto per la fisica, ma anche per la chimica e per la medicina. Il dato rilevato per quest’ultima tornata non desta alcuna meraviglia, in quanto, se si tengono presenti le statistiche relative all’assegnazione del premio, si evidenzia una fortissima sperequazione tra i generi: in particolare, nell’ambito della fisica, sono stati premiati 206 scienziati e soltanto 4 scienziate; più numerose le premiate per la chimica: 7 donne e 160 uomini; per la medicina, infine, risultano soltanto 12 premi assegnati a donne, tra le quali è assai viva la memoria per la premiazione, nel 1986, di Rita Levi-Montalcini, mentre gli uomini sono stati ben 207.

Il divario evidenziato in base al genere conferma che, anche al massimo livello di riconoscimento degli studi scientifici, i ruoli ricoperti dalle donne sono scarsamente valorizzati, quasi sempre tenuti in ombra, marginalizzati o, addirittura, misconosciuti. Le radici della cosiddetta ‘mascolinizzazione della scienza’ sono da ricercarsi in varie dimensioni: nella politica della scienza, con un potere declinato quasi esclusivamente al maschile, nella discriminazione di genere troppo a lungo veicolata dallo stereotipo delle attività ‘naturalmente’ precluse alle donne, nel pregiudizio che queste siano prive delle qualità intellettuali richieste per l’impegno negli studi e nelle ricerche scientifiche.

La riflessione vale soprattutto nell’ambito delle ‘scienze dure’, quali la fisica, la chimica, la biologia ecc. che, nel loro sviluppo storico, si può dire che siano state coltivate esclusivamente da scienziati, sia pure con qualche rara, ma assai significativa eccezione, rappresentata da studiose di altissimo livello, come Marie Curie: ella è l’unica scienziata vincitrice di due premi Nobel –  il primo per la fisica, attribuitole nel 1903 e condiviso con il marito Pierre Curie per le ricerche sulla radioattività; il secondo per la chimica, nel 1911, per la scoperta del radio e del polonio e per lo studio della natura e dei composti del radio.

E alla scienziata non fu risparmiata una campagna di stampa denigratoria per il coinvolgimento nello ‘scandalo dell’affaire Langevin’: in questo caso le vicende private furono usate per screditare i meriti acquisiti con l’impegno nell’attività scientifica. È degno di memoria il fatto che la passione per la scienza sia stata condivisa anche da una delle due figlie di Marie, Irène Curie che, insieme al marito Frédéric Joliot, ottenne il premio Nobel per la chimica nel 1935.

La riflessione sulle questioni di genere nell’ambito della scienza vale anche considerando la presenza femminile nei grandi progetti di ricerca della big science, presenza veramente assai limitata, com’è possibile rilevare fin dal Progetto Manhattan, che si concluse con la produzione della prima bomba atomica alla fine della seconda guerra mondiale o, più recentemente, a proposito della realizzazione delle missioni spaziali. Del resto, va ricordato che soltanto verso la fine dell’Ottocento cominciò ad essere riconosciuto alle donne il diritto all’istruzione superiore e agli studi universitari.

Per avere ancora altri dati relativi alla lunghissima assenza delle donne nell’ambito degli studi scientifici, è opportuno fare riferimento, sia pure a titolo d’esempio, alla partecipazione femminile in alcune delle più prestigiose accademie scientifiche europee: nella Royal Society di Londra, fondata nel 1660, sono state elette Fellow le prime scienziate soltanto nel 1945, precisamente la cristallografa Kathleen Lonsdale (1903-1971) e la biochimica Marjory Stephenson (1885-1948); in Francia, l’Académie des Sciences, istituita nel 1666, ha eletto per la prima volta una scienziata soltanto nel 1962, riconoscendo i grandi meriti acquisiti da Marguerite Perey (1909-1975), che aveva collaborato alle ricerche condotte nel laboratorio di Marie Curie alla quale, invece, l’accesso all’Académie, nonostante la proposta di candidatura, fu negato; in Italia, nella Società Italiana delle Scienze detta dei XL, la cui prima fondazione si può fare risalire al 1782 per raccogliere tra i suoi quaranta soci i più grandi scienziati italiani, si attese il 1980 per eleggere Rita Levi-Montalcini come prima socia dell’Accademia; poi, però, quasi a titolo di risarcimento per una così lunga esclusione delle scienziate, dal 2011 al 2018 è stata nominata presidente la biologa Emilia Chiancone (1938-2018), docente di biologia molecolare nell’Università di Roma “La Sapienza”.

Analoga è la situazione per l’Accademia dei Lincei, che ha avuto tra i suoi primi soci Galileo: le discriminazioni di genere sono state superate soltanto intorno alla metà del Novecento e la prima lincea è stata la chimica Maria Bakunin, eletta socia nel 1947, nella Classe delle scienze fisiche.

Una discriminazione di genere ancor più grave si può riscontrare nel campo degli studi di matematica, settore nel quale le donne hanno affrontato ancora maggiori difficoltà e pregiudizi, poiché si riteneva che le menti femminili fossero poco inclini al rigore, portate più verso le fantasticherie, fragili dal punto di vista dell’equilibrio e della stabilità nervosa.

Eppure i meriti delle studiose, anche nel campo della matematica, sono stati ragguardevoli: basti pensare alla diffusione dei Principia mathematica di Newton legata alla traduzione realizzata da Gabrielle-Émilie du Châtelet (1706-1749) ottima studiosa di matematica e di fisica, ma ricordata soprattutto per la lunga relazione con Voltaire.

In genere alle donne, come è stato già segnalato in numerose pubblicazioni di storia della scienza basate sulle ricerche promosse da Raffaella Simili nell’Università degli Studi di Bologna, tra le quali si segnalano Scienza a due voci (Firenze 2006) e il Dizionario biografico delle scienziate italiane (Bologna 2012), sono stati riconosciuti soltanto ruoli subalterni, di ‘manovalanza scientifica’, con la giustificazione che la loro natura era ‘manchevole’, con attitudini creative ridotte, come attestavano medici e antropologi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando si sosteneva che lo sviluppo dell’intelligenza fosse inversamente proporzionale alla fecondità, e che alle donne fossero congeniali lavori di pazienza, di precisione, ma non attività che richiedevano un pensiero originale.

Dunque, alle donne poteva essere impartita un’educazione riguardante le attività domestiche, i lavori di cura e, nel migliore dei casi, le occupazioni artistiche o letterarie, ma dovevano essere escluse dall’esercizio di incarichi nell’ambito delle scienze.

Anche in base a questi pregiudizi, a cui si aggiunse l’essere di origine ebrea in un periodo in cui, per le leggi razziali vigenti sotto i regimi nazifascisti, gli ebrei furono espulsi dalle università, dalle scuole e dalle professioni, alla fisica austriaca Lise Meitner (1878-1968) fu negato il premio Nobel. Il caso della Meitner, scopritrice della fissione nucleare, è stato oggetto di approfondite indagini storiografiche, in base alle quali è stato possibile ricostruire nei dettagli le varie fasi delle ricerche per le quali il premio Nobel fu assegnato, invece, a Otto Hahn (1879-1968); lo storico della scienza Robert Marc Friedman ha sottolineato che Hahn non fece menzione dei meriti della scienziata con la quale aveva collaborato per circa trent’anni nelle ricerche sulla radioattività, né riconobbe che era stata la Meitner, insieme al nipote, il fisico Otto Robert Frisch (1904-1979), a dare una corretta spiegazione dei risultati raggiunti dallo stesso Hahn nel processo di trasformazione dell’uranio. Il modello di spiegazione di quei dati, che furono interpretati come ‘fissione nucleare’ da parte della Meitner e di Frisch, fu decisivo per gli sviluppi ulteriori dello studio sull’atomo.

Il caso della Meitner, più volte candidata al premio Nobel, ma sempre respinta per ragioni legate alla politica della scienza, si può considerare paradigmatico per tante vicende in cui sono state coinvolte le donne impegnate nella ricerca, anche se non sono mancati gli scienziati che, con grande onestà intellettuale, hanno riconosciuto i meriti scientifici delle loro colleghe, sostenendo il loro inserimento, a pieno titolo, nei diversi gruppi di ricerca o nelle istituzioni scientifiche.

Con le ricerche di genere nella storia della scienza sono emersi nomi e dati a lungo misconosciuti, oppure volutamente obliati, e sono state avviate nuove indagini sui contributi offerti dalle scienziate: dopo un lunghissimo periodo di ‘invisibilità’, molto di recente i ruoli delle scienziate sono stati equiparati a quelli maschili e oggi, finalmente, vi sono alcune scienziate impegnate in posizioni apicali. L’auspicio è che ciò possa valere in ogni ambito, anche per i più alti ruoli istituzionali che le donne non hanno ancora raggiunto.

 

*Professoressa associata di Storia della scienza e di Storia della psicologia, Università del Salento

 

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