Di recente, il presidente del Lazio Francesco Rocca ha precisato che non chiederà l’autonomia differenziata perché la Regione ha venti miliardi di debito. Il Lazio, quindi, rinuncia al regionalismo differenziato finché non verranno definiti i “Livelli essenziali delle prestazioni” (Lep), che non si intravedono neppure all’orizzonte.
Il presidente Rocca, insediato da poco, ovviamente non è responsabile del mostruoso debito regionale che i suoi predecessori, senza distinzione politica, gli hanno lasciato in eredità. Vale la pena di ricordare che l’eredità della “cosa pubblica” non è accettabile con il beneficio d’inventario, come l’eredità di un privato. Tuttavia può essere trasferita ai successori. Una possibilità che, stando ai fatti di casa nostra, nessun governante rifiuta. In verità la regione Lazio è la più indebitata, molto più di quanto dichiara il suo presidente. Tutte le regioni ordinarie, dal 1970, hanno accumulato debiti. Sono ‘cicale’ come lo Stato centrale. Tutt’altro che virtuose ‘formiche’, come pretenderebbero di accreditarsi i patrocinatori del regionalismo differenziato.
Stando ad elementi ricavabili dalla Banca d’Italia, nel 2022 le Regioni, pur presentando dati eterogenei, sono tutte caratterizzate dalla finanza allegra. Il Lazio avrebbe un debito pubblico di circa 28 miliardi di euro. La Campania avrebbe circa 15 miliardi di debito. Lombardia, Piemonte e Sicilia starebbero sui 10 miliardi cadauna. In altre regioni l’indebitamento sarebbe inferiore. Valle d’Aosta, Molise e Basilicata avrebbero un debito pubblico complessivo inferiore ad 1 miliardo. Il debito di Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige ammonterebbe a circa 1,3 miliardi.
Le cifre sono indicate al condizionale perché difficili da reperire. Poi non collimano mai, probabilmente anche per le diverse metodologie di calcolo. Insomma, i debiti regionali sono tanti ma nessuno sa esattamente quanti! Del resto il debitore, si sa, di apparire disdegna. Ad ogni buon conto il punto decisivo da sottolineare è il seguente: l’unico campo di attività nel quale le Regioni hanno mostrato all’unisono capacità “realizzative” consiste indiscutibilmente nella “produzione” di debiti. Con tali precedenti, aspettarsi sostanziosi incrementi di “produttività” nello specifico campo dell’indebitamento sarebbe inevitabile se, ciò nondimeno, l’improvvida autonomia differenziata dovesse realizzarsi in un’Italia così ridotta a staterelli preunitari.
E tuttavia, parlando più in generale, ogni governo della Repubblica, non meno delle Regioni, passa al governo successivo il debito pubblico, alla stregua degli atleti con il “testimone” nelle staffette. Anche quando dichiarato, il proponimento di ridurlo resta in genere un pio desiderio. Quasi che fosse un’eredità preziosa, il debito viene trasmesso intatto ai successori. Liberarsi dai debiti ha smesso d’essere una virtù pubblica. Il popolino non se ne preoccupa. I governanti temono il giudizio della comunità internazionale, che potrebbe indurre i creditori nazionali e stranieri a ritirare le cambiali. Se la situazione permane tranquilla, il tran tran debitorio continua. La ricchezza annuale prodotta dagl’Italiani non copre il debito, che cresce per gl’interessi passivi e il deficit del bilancio.
Non pare sicuro che il debito iscritto nei documenti ufficiali sia tutto il debito reale. Non sto insinuando, badate bene, che i conti pubblici siano un pochino truccati. Lo sto affermando sulla base di un devastante editoriale del Corriere della Sera (27 luglio 2024), dove la notizia della sostituzione del Ragioniere generale dello Stato (“il bollinatore” mi piace chiamarlo con un neologismo inventato per l’occasione in riferimento al capo del dipartimento del Tesoro che “certifica” il finanziamento delle leggi) era accompagnata dalla severissima riprensione delle previsioni sbagliate e delle coperture mancate di due misure che hanno sconquassato la finanza pubblica e non smetteranno di dissanguarla per anni: superbonus 110% e patent box, un anglicismo ad arte per un altro 110%. L’inquietante monito dell’editoriale è caduto nel silenzio politico dei governanti e dei parlamentari, affannosamente indaffarati a scommettere su Donald Trump e Kamala Harris.
Il governante che indebita i governati ha sviluppato una straordinaria scaltrezza nell’occultare e minimizzare gl’impegni e le passività. Il Paese galleggia sopra un oceano di debiti, mentre, stentando a crescere, deperisce organicamente. Il debito pubblico ha tagliato il traguardo dell’ultima tappa: tremila miliardi, una cifra che in lire è difficile scrivere e impossibile pronunciare. Ai debiti contratti devono essere addizionati i debiti attesi, causati dalle leggi di spesa, specie previdenziali ed assistenziali. La speranza di evitare il fallimento poggia sulla crescita economica e la vigilanza europea: l’una è aleatoria come il destino degli individui e dei popoli; l’altra comporta penalità che, come tutte le sanzioni, non sempre redimono il reo.
A somiglianza di chi, pur camminando nel fondo di un vallone tra incombenti montagne, riesce a scamparla se la massa innevata non precipita, l’Italia avanza incurante tra i debiti che la sovrastano. Il viandante e il Paese sono parimenti esposti allo stesso terribile pericolo. Un colpettino di tosse può scatenare la valanga che travolgerebbe entrambi.