La fretta immobile. Un riformismo visionario per far uscire la società dallo stallo

Andiamo sempre di fretta, in questi anni, ma non ci muoviamo quasi più. Perché se si tratta di cambiare qualcosa o anche solo di riformare, il tempo sembra dilatarsi con progressione geometrica.

È pur vero che ognuno ha nella testa un proprio orologio, che scandisce minuti ed ore in maniera diversa: per uno una stagione dura un’istante, per un altro mezz’ora equivale a un ergastolo. Ogni tanto, per ritoccare la nostra percezione delle cose potremmo ricordare una stupenda favoletta sul tempo e sulla relativa attesa raccontata dal poeta triestino Carolus Cergoly. Che dice così: “Lassù a settentrione, in un paese che si chiama Svithjod c’è un macigno alto cento chilometri e largo altrettanto. Ogni mille anni un uccellino va ad affilarsi il becco contro la sua cresta. Quando il macigno così consumato sarà raso al suolo allora sarà tramontato un sol giorno di eternità”.

Ciò detto per dare il giusto peso alle cose del mondo e ai suoi ritmi, sui quali abbiamo scarso o nullo imperio, è bene domandarci come cercare di equilibrare la nostra frenesia di vivere con la inquietante incapacità di procedere nei cambiamenti. Le ricette le conosciamo tutte, più o meno.

C’è chi vorrebbe tornare ad un mitizzato passato e chi sentenzia che il progresso non si arresta mai. C’è chi invoca la decrescita e chi argomenta che è una follia. Eppure, approfittando anche della esperienza che abbiamo fatto e stiamo facendo in questi anni di pandemia e di grandi sconvolgimenti mondiali, dovremmo incominciare a meditare sull’uso che facciamo delle nostre ore. E anche provare ad accordare il nostro respiro con quello dell’universo. Ascoltare i suoni del mondo per armonizzarli col metronomo interiore. Evitando dissonanze gravi e arrivando finalmente a comprendere che il dono migliore che ci può fare questo secolo, già così complesso, è di poterci muovere avanti e indietro senza rigidità ideologiche o filosofiche.

Vale a dire che dovremmo finalmente guadagnarci e goderci la possibilità di sostituire quello che non funziona liberandoci da tutti i lacci mentali e dalle idee fisse che per troppo tempo hanno imposto di marciare in un’unica direzione. Ciò vale sia per le teorie economiche sia per quelle politiche. Che essendo teorie e non dogmi sono passibili di cambiamenti. Evitando la insidiosa trappola che abbiamo imparato a conoscere con l’arrivo della recente irrazionale folata di antiscienza. Che ha trovato purtroppo alimento anche in una sciocca e presuntuosa gestione della scienza stessa usata da troppi per fini politici.

È chiaro che l’avvento dell’ automazione ha ridotto la manodopera, ma ci siamo illusi che saremmo stati liberati dalla fatica e avremmo potuto dedicarci a ben altro. Una volta compreso che non tutto è vero, possiamo ben decidere di riequilibrare le proporzioni, per esempio riducendo le macchine e aumentando gli operatori umani in molti campi.

L’informatica e il web ci hanno reso più comoda la vita, è vero. Ma nel contempo ci stiamo accorgendo che la presenza umana, (il volto, la voce, il sorriso, la stretta di mano, la conversazione diretta per risolvere i problemi) non possiamo sostituirla con la rete.

Andiamo di fretta, sogniamo di restare eternamente giovani e in salute, pretendiamo di prevedere e di programmare tutto della esistenza. E invece perdiamo tempo, sprechiamo energie, ci illudiamo di poter incidere nella gestione della storia. Illusione alimentata dalle nuove tecnologie e dai nuovi media; siamo convinti di giocare un ruolo facendo parte di cosiddette community che valgono in realtà assai meno di assemblee di condominio.

E giriamo come criceti sulla ruota intorno ai problemi politici: si cercano impensabili nuovi equilibri partitici, fantascientifiche nuove geometrie, senza comprendere che cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Chi ha mostrato e mostra un modo di pensare ancorato a schemi ideologici tramontati o falliti non può certo riformare la società. E gli improvvisatori che dal bel nulla si propongono come salvatori appartengono anch’essi a un repertorio già usurato, replicando, alla prima occasione, comportamenti visti e rivisti.

Per così dire, abbiamo tanto da fare che non facciamo mai niente. Un’epoca riformista è certamente ancora possibile, è anzi a portata di mano. Basta che qualcuno con volontà incominci ad elaborare politiche che non si basino su funambolici equilibrismi ma siano fantasiose e coraggiose, non appoggiate solo su blocchi sociali, poeticamente e misticamente visionarie. E che consentano di percorrere strade che oltre all’andata prevedano anche un possibile ritorno.

Perché a questo mondo non c’è nulla di scritto che non si possa riscrivere. Senza pretendere che la lentezza sia la ricetta vincente come non lo è in assoluto la velocità.

 

Maurizio Lucchi – Giornalista

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