La compassione del samurai

La pietas, questa sconosciuta

Sdegno, rabbia, dolore, sorpresa, denuncia o negazione: c’è tutta una gamma di reazioni di fronte a quello che ci stanno raccontando dai fronti di guerra in Ucraina.

Manca, purtroppo, la compassione, un sentimento che solo gli stupidi ritengono segno di debolezza. Sembra sparita dalle nostre vite: è un male, perché è fondamentale nell’esistenza di ogni essere umano, che sia un guerriero o la persona più pacifica.

Di fronte al dramma della guerra ci piovono addosso condanne e distinguo, paragoni e analisi, anatemi o difese d’ufficio. Milioni di parole, filosofie spicciole che tendono a spiegare o certificare non si sa bene che cosa.

Ci tocca leggere ed ascoltare commenti di improvvisati esperti che dal salotto di casa snocciolano consigli e prospettano strategie dopo la invasione da parte della Russia. Senza un briciolo di compassione, il sentimento che distingue il soldato dal carnefice, il guerriero dal lurido assassino, l’essere umano dalla fiera.

Si sente dire in queste ore che la guerra è colpa di tutti. Strano ragionamento: come dire che la colpa è di nessuno. Questa non si può dire neppure saggia e rassegnata presa d’atto dei tanti difetti e limiti dell’essere umano. È solo una sciocchezza. Un nascondimento. Ogni volta che ci si trova davanti ad un conflitto, e in anni recenti ne abbiamo visti molti prima di questo in Ucraina, scatta il dibattito: la guerra è evitabile o è un male ineliminabile?

Si discute di diritto alla difesa, si cade in quella trappola mentale che è il “paragonismo” per cui personaggi o fatti storici dei secoli passati sono affiancati a ciò che accade oggi. La questione è eterna. Non c’è scuola filosofica che non l’abbia affrontata. E si continuerà a farlo con scarsi risultati. Inutile dividersi tra chi piange Abele e chi prova a giustificare Caino. Poiché nessuna ricetta sembra aver sortito risultati in qualche milione di anni, vale forse la pena di affidarsi a poche e semplici regole.

Le colpe hanno sempre dei colpevoli: questo è già un buon punto di partenza. E debbono essere espiate. Ma soprattutto bisogna che torni di moda la compassione, il sentimento che anche nella più furibonda battaglia evita al guerriero di trasformarsi in un demone. Abbiamo avuto, e ogni tanto sarebbe bene ricordarlo, in ogni guerra degli eroi della pietas. Dei combattenti capaci di gesti di assoluta cavalleria nei confronti degli avversari e di rispetto dei non combattenti.

La compassione è la molla che ha animato i coraggiosi capaci di restare uomini. I soldati che uccidono, violentano, torturano i civili sono dei mostri. E lo sono ancora di più coloro che li comandano. Bisogna avere il coraggio di dirlo, senza nascondersi dietro inutili paragoni con nefaste ideologie del passato: i carnefici perdono la dignità di definirsi esseri umani.

E debbono pagare per le loro colpe, debbono essere puniti in modo implacabile. I vili assassini si possono ingabbiare solo con la paura di una punizione assoluta. Le guerre sono probabilmente ineliminabili. Ma le regole, in primo luogo quelle che fanno di un uomo un essere degno di onore, possono e debbono essere insegnate, imposte e soprattutto fatte rispettare.

“Il miglior combattimento è quello che si vince senza combattere”: non lo sostiene un decalogo pacifista ma il codice dei samurai, i guerrieri dell’antico Giappone. Non certo delle mammole, gente pronta a morire pur di non arrendersi. E sapevano che per vincere senza combattere occorre essere disposti a farlo. Però, nel Bushido che raccoglie le regole di condotta, si legge che il samurai ha forza e potere e deve usarli per il bene comune.

Per lui “compassione” vuol dire saper aiutare i propri simili in ogni occasione, in particolare gli inermi, le donne e i bambini. E ancora, il guerriero non ha bisogno di comportarsi in maniera crudele per mostrare la propria forza, è gentile anche con i nemici. Norme simili hanno per secoli caratterizzato anche la cavalleria occidentale. Senza un potente sforzo per educare i giovani a ideali profondi e all’orgoglio di rispettare le regole anche a costo di sacrifici, continueremo ad ascoltare la inutile retorica che seppellisce in fretta le vittime e dimentica i carnefici.

 

Maurizio Lucchi – Giornalista

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