Kissinger, quando mortificò due Grandi Italiani

L’ex segretario di Stato ha compiuto cento anni. Le minacce a Moro e lo sgarro fatto a Guido Carli

Il 27 maggio Henry Kissinger, tedesco di origine ebraica fuggito in America per scampare a Hitler, celebre segretario di Stato americano, amico dei potenti della Terra, tra cui Gianni Agnelli, ha compiuto cento anni. In condizioni, dicono le cronache, di buona salute e di lucidità, come, mi piace ricordarlo con affetto, il mio maestro di giornalismo e di vita Sergio Lepri, mitico direttore dell’Ansa.

 

Henry Kissinger

 

Nel 2019, prima del compimento dei cento anni, si era in giugno e lui era nato in Settembre, si svolse una memorabile e semplice cerimonia di omaggio a Palazzo Vecchio, gran cerimoniere il sindaco di Firenze Dario Nardella. Non fu una festa di compleanno anticipata, Lepri era fiorentino e non partenopeo, come Nardella, e tuttavia non si festeggia mai prima del tempo.

Tornando a Kissinger, al suo periodo d’oro degli anni Settanta, al tempo di Nixon, non staremo a raccontarne la vita, che gli auguriamo continui a lungo, né ci soffermeremo sulla sua lunga carriera di capo della diplomazia americana, con le sue luci e le sue tante ombre.

Non è questo il momento di un ritratto a chiaroscuro.

A noi interessa raccontare due episodi che vedono protagonista Kissinger in due momenti particolarmente delicati per l’Italia. Li presentiamo non con la logica di dire: ecco questo era Kissinger, ma almeno di osservare: Kissinger era anche questo;  oppure possiamo ricordare l’antico motto latino: ex ungue leonem, che alla fine è la chiave interpretativa che preferiamo.

Il primo episodio vede protagonisti Kissinger e Moro, e si svolge negli anni Settanta.

Il secondo episodio vede Kissinger e il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli.

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Vediamo il primo episodio

Nel settembre del 1974 Aldo Moro, fece un viaggio negli Stati Uniti da ministro degli Esteri, due mesi dopo sarà presidente del Consiglio a capo di un governo – il Moro La Malfa – che poi sarà affondato il giorno di San Silvestro da un inopinato articolo sull’Avanti!  del segretario del Psi Francesco De Martino.

 

Aldo Moro

 

Per spiegare il contesto di quel viaggio: erano gli anni in cui Moro aveva elaborato verso il Pci quella che è passata alla storia come “la strategia dell’attenzione”; che non voleva dire, come scrissero alcuni divulgatori interessati o malevoli, il governo con i comunisti, ma una strategia di dialogo verso il maggior partito di opposizione e il più forte partito comunista dell’Europa occidentale. Moro era un politico che non demonizzava né aveva paura di confrontarsi, e la sua era anche una sfida al Pci sui valori della democrazia e della libertà. Contro i pavidi e i miopi di alcuni settori del suo partito soleva martellare sul concetto che la Dc e il Pci erano “irriducibilmente” alternativi sul problema della libertà e della concezione della persona, almeno finché i comunisti non avessero reciso i legami internazionali con l’Unione Sovietica.

Questa strategia era in qualche modo la risposta alla mossa che un anno prima, nel 1973, il segretario del Pci Enrico Berlinguer aveva fatto lanciando la famosa proposta del “compromesso storico” tra masse cattoliche e laiche (in termini politici tra Dc e Pci).

Berlinguer, ma non solo lui, tutta la sinistra italiana era rimasta traumatizzata dalla tragica caduta del socialista Salvador Allende, eletto presidente del Cile con libere e democratiche elezioni, bombardato e ucciso nel suo palazzo presidenziale della Moneda.

 

Salvador Allende

 

Il golpe, materialmente operato dal generale Augusto Pinochet ma con la complicità degli Stati Uniti, fu l’epilogo di una situazione che aveva visto il Paese sudamericano paralizzato dallo sciopero dei camionisti. La gente esasperata dalla mancanza di rifornimenti, di viveri, dalla sospensione dei servizi, dall’economia bloccata aveva dato vita a un forte malcontento: era il terreno favorevole per il golpe e infatti il 10 settembre del 1973 consummatum est.

La tragedia cilena indusse il segretario del Pci Berlinguer a una riflessione molto seria: la base di partenza era un’analisi della situazione di quel Paese sudamericano, delle reali situazioni in cui Allende si era trovato a operare. Berlinguer giunse perciò a una conclusione: che un Paese non può essere governato con il 51 per cento. Una maggioranza così risicata lo espone a avventure antidemocratiche. Da qui trasse la tesi che anche in Italia bisognava prendere atto e che si doveva costruire una forte alleanza tra masse laiche e cattoliche per dare allo Stato e al governo una larghissima base democratica di sostegno.

Questa alleanza Berlinguer la battezzò con una formula “compromesso storico”, dove la prima parola (in verità un po’ logorata dall’uso e soggetta a fraintendimenti) voleva significare una accordo serio come davanti al notaio; e storico stava a indicare che non si dovesse trattare di una intesa politica contingente ma destinata a restare e a segnare la storia d’Italia.

Questa riflessione berlingueriana, che noi abbiamo sintetizzato all’osso, fu illustrata in ben tre articoli comparsi, a firma del segretario del Pci, sulla rivista “Rinascita”- I giornali, specialmente quelli moderati, la semplificarono come la proposta di un governo tra Dc e comunisti. In realtà era qualcosa di più complesso, come la strategia dell’attenzione era un discorso molto più articolato della reductio ad unum di un accordo con i comunisti.

Ma la politica spesso viene illustrata in modo semplificata oltre il dovuto e il necessario, e,  quel che è peggio, sono spesso queste semplificazioni a restare nella memoria della gente.

È un omaggio, un ridicolo omaggio, un fuorviante omaggio a questa semplificazione, per esempio, la statua in grandezza naturale di Moro a Maglie, suo paese natale, dove il presidente della Dc viene raffigurato con una copia dell’Unità sotto il braccio. (l’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci, era lo storico quotidiano del Pci, da poco ritornato in edicola, ma è tutta un’altra storia). Chiaro il messaggio: Moro amico dei comunisti. Dice troppo e dice troppo poco, al tempo stesso.

La strategia dell’attenzione e il compromesso storico non erano proposte che potessero piacere alla diplomazia americana, dove Henry Kissinger dettava legge.

E perciò quando nel settembre del 1974 ci fu l’incontro tra il segretario di Stato e il ministro degli Esteri italiano Moro , ci fu una specie di “resa dei conti”; una resa di conti, ovviamente unilaterale, perché Moro, che era forte delle sue idee ma le esprimeva con mitezza, non era uomo da piazzate o da smargiassate.

I particolari di quel colloquio saranno prima o poi resi noti, quando le carte saranno desecretate, ma basta già quello che uscì dalla prima commissione d’inchiesta sul caso Moro a dare una idea sufficiente.

Kissinger fece a Moro un discorso che non si prestava a equivoci: gli illustrò casi di altri Paesi dove i leader aperturisti, di sinistra,  avevano fatto una brutta fine. Con una logica da post hoc, ma anche propter hoc, disse che non condivideva affatto tutte quelle aperture ai comunisti, che i comunisti restavano tali e come tali dovevano essere trattati. Di qui l’invito a “lasciar perdere”;  ma conoscendo la mentalità “padronale” e criptocoloniale degli americani era in realtà una imposizione, un avvertimento, un ordine, un monito e qui possiamo esaurire tutti i sinonimi, ma la conclusione è chiara: a Moro dovette sembrare, il discorso Kissingeriano,  così  subdolo, sinistro e foriero di pericoli e minacce, che ne rimase scosso. Andò a rifugiarsi e a trovare conforto nella fede, nella Cattedrale di Saint-Patrick a New  York; e mentre pregava ebbe un malore e si accasciò sulla panca.

Ne rimase così avvilito, e probabilmente così disgustato, che confidò al suo segretario capo ufficio stampa Corrado Guerzoni: Basta, io ho chiuso, per tre anni non ne voglio più sapere, mi ritiro dalla politica attiva.

Ma si trattava di Moro, non di un funzionario di partito, e non fu difficile ad amici e collaboratori fargli presente che non era proprio il caso di ritirarsi (e/o di dargliela vinta agli americani).

La situazione politica italiana aveva ancora bisogno di un tessitore come Moro, e infatti due mesi dopo nel novembre del 1974 costituì un governo bicolore con Ugo la Malfa, con l’appoggio esterno degli altri vecchi alleati di centrosinistra.

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Kissinger e Guido Carli, altra smargiassata dell’ex segretario di Stato

Questo episodio lo ha raccontato di recente il professor Paolo Savona, in due convegni organizzati da Federico Carli, presidente dell’Associazione culturale intitolata al nonno Guido.

Sia la prima sia la seconda volta l’attuale presidente della Consob ha raccontato questo singolare episodio, che getta una luce inquietante su Kissinger, quasi con le stesse parole, e tutte e due le volte ancora con un certo stupore. Eppure sono passati cinquant’anni.

Siamo nei primi anni Settanta.

Il 15 agosto 1971 il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon dichiara finiti gli accordi di Bretton Woods sulla convertibilità del dollaro in oro, detto anche gold standard, che durava dal 1944.

 

Nixon

 

Qualche tempo prima però il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli aveva intuito che per il dollaro la situazione cominciava a essere poco brillante e perciò decise di fare una operazione di conversione in oro di una gran parte di dollari di cui la Banca d’Italia era in possesso. Ne fece perciò ufficialmente richiesta al governo degli Stati Uniti.

Da Washington arrivò una convocazione per Guido Carli: la richiesta veniva direttamente da Kissinger, che voleva ricevere il Governatore della Banca d’Italia.

 

Guido Carli

 

Carli parte per l’America, arriva negli uffici del Segretario di Stato e si mette a fare anticamera, dopo essersi fatto annunciare: passarono le ore, ma Kissinger non lo riceveva. Alla fine fece sapere che non l’avrebbe ricevuto.

Il messaggio era chiaro. Carli capì. Tornato in Italia rinunciò alla operazione di conversione.

In conclusione, questo diplomatico che si è piccato di somigliare a Talleyrand, a Richelieu e ad altri grandi della diplomazia europea, comunque lo vogliamo considerare, ha fatto almeno due smargiassate trattando il nostro Paese come colonia: si è permesso di mortificare due Grandi Italiani.

A Carli andò meglio che a Moro: almeno gli risparmiò le minacce.

Lunga vita a Kissinger, così forse avrà tempo, se non l’ha già fatto, di riflettere su queste ben poco gloriose gesta!

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

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