Una sottile malizia della politica ha voluto che la presentazione delle nuove linee guida sull’insegnamento dell’educazione civica sia quasi coincisa col dibattito, vivace anzi, per utilizzare un termine alla moda, divisivo all’interno della stessa maggioranza di governo sull’introduzione dello jus scholae: la possibilità di concedere la cittadinanza ancor prima del compimento del diciottesimo anno di età agli extracomunitari che abbiano frequentato in Italia un adeguato ciclo di studi.
Se per divenire italiani a tutti gli effetti l’istruzione costituisce un requisito necessario e sufficiente, è ovvio che assuma un’importanza di primo piano una disciplina che sino a oggi era stata considerata un po’ la cenerentola delle materie, visto che potrebbe assumere un’importanza decisiva per preparare adolescenti delle più diverse estrazioni etniche e culturali a divenire, appunto, cives. Certo, per sentirsi italiani non basta conoscere a memoria gli articoli principali della Costituzione; eppure sapere a quali principi giuridici ed etici è improntato l’ordinamento giuridico della nazione di cui si aspira a divenire cittadini è senz’altro fondamentale.
In passato, l’educazione civica era una disciplina insegnata alla scuola media dall’insegnante di Lettere e faceva tutt’uno con la storia. In tale accorpamento non mancava una certa logica, se si considera la storia maestra di vita, sia pure, magari, con un eccesso di ottimismo. Nei primi anni Novanta i programmi per gli istituti tecnici e professionali elaborati dalla Commissione Brocca la introdussero di fatto nel primo biennio, all’interno dell’insegnamento del diritto. Da una didattica di impronta in prevalenza storica ed etica si passava a un insegnamento giuridico e tecnico, forse un po’ troppo anticipato, perché il diritto è per certi aspetti una forma pratica di filosofia e gli interessi speculativi difficilmente maturano prima dei sedici anni.
Oggi prevale l’orientamento di affidare, compatibilmente con la disponibilità di docenti, l’insegnamento della materia a un laureato in discipline giuridico-economiche; ma, al di là delle questioni di competenza, è interessante notare come le nuove linee guida, agevolmente consultabili sul sito del Ministero, si rivolgano a tutti gli insegnanti per supportarli nella loro azione educativa e pongano l’accento sull’esigenza di educare anche “alla coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea e occidentale e della sua storia”, evidenziando “il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione”, anche per “favorire l’integrazione degli studenti stranieri”.
Il punto del Ministro
È altamente improbabile che il professor Valditara, ministro in quota Lega, abbia promosso tale formulazione con l’intento di aprire la strada allo jus scholae, fermamente osteggiato dal suo partito, ma il nesso teorizzato fra sentimento nazionale e integrazione non è privo d’interesse. Oltre tutto, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, con un parere per altro solo consultivo, ha espresso riserve sulla formulazione delle nuove linee guida.
Resta comunque aperto un interrogativo: siamo sicuri che un certo numero di anni trascorso sui banchi (si spera non solo a scaldarli) e la conoscenza dei principali articoli della Costituzione siano sufficienti a fare un “nuovo italiano? La mera frequenza garantisce ben poco, in termini di adesione a una comunità nazionale.
Chi scrive ha conosciuto nella sua esperienza didattica alunni stranieri con atteggiamenti profondamente diversi nei confronti della scuola. Alcuni erano più volonterosi degli stessi italiani, per sincero interesse alla nostra cultura e anche perché convinti che l’istruzione potesse costituire per loro uno strumento di crescita sociale, come lo erano i figli di famiglie operaie fino agli anni Ottanta. Altri, invece, parevano spesso poco inclini ad abbandonare le subculture di origine, al punto da considerare una sorta di diminutio capitis dar retta a un docente di sesso femminile.
Il metodo americano
Un criterio più selettivo per l’accesso alla cittadinanza sarebbe, sul modello statunitense, la disponibilità a prestare servizio militare, magari per un anno come volontario a ferma breve. Negli Stati Uniti tale prassi è usuale, tanto che persino il giovane Henry Kissinger, il futuro segretario di Stato, per ottenere la cittadinanza, lui profugo ebreo, si arruolò come soldato semplice nell’Esercito nel 1943, salvo essere promosso sergente dopo pochi mesi per i suoi eccezionali meriti e proposto per una cattedra come insegnante civile in un’accademia.
Una selezione di questo genere avrebbe il duplice merito di consentire di verificare nel corso di un’esperienza totalizzante come il servizio militare l’affidabilità di un futuro cittadino e di selezionare persone disposte a “sacrificare” un anno della propria vita, sia pure con uno stipendio ben più alto della “decade” dei vecchi soldati di leva e in condizioni di confort assai migliori rispetto al passato. Il rischio sarebbe una fioritura di vocazioni militari “opportunistiche”, con tutti i problemi che ne potrebbero conseguire.
Se la frequenza scolastica dovesse davvero costituire un canale privilegiato per l’accesso alla cittadinanza, questo potrebbe comportare per gli istituti scolastici oneri maggiori nella valutazione degli alunni stranieri. Non si tratterebbe di valutare solo le capacità, magari in certi casi di strappare una semplice sufficienza, ma anche il merito, ovvero il comportamento (e in questo senso occorre riconoscere che il ministro Valditara si è impegnato come pochi dei suoi predecessori, ripristinando credibilità e importanza per il voto in condotta). I dirigenti scolastici hanno in larga parte espresso parere favorevole allo jus scholae, perché valorizzerebbe appunto il ruolo dell’istruzione. È onesto aggiungere però che sarebbero le scuole a dover dare un valore aggiunto alla per ora ipotetica riforma, verificando quanto la frequenza abbia effettivamente contribuito a formare dei nuovi italiani.
Non si tratterebbe naturalmente di fare cittadino solo chi esce dalle medie con l’ottimo od ottiene un cento alla maturità, ma di verificare quanto durante la frequenza abbiano dimostrato di condividere i valori di una civile convivenza. La cittadinanza presenta una caratteristica in comune con la confidenza e con il sale: una volta data non si può togliere; per questo è consigliabile non regalarla.
La Carta Costituzionale
Tornando al tema dell’educazione civica, anche astraendo dalla complessa questione dello jus scholae, è doverosa un’altra considerazione. Senz’altro è positivo che ai nostri studenti si cerchi d’insegnare, con un disegno interdisciplinare, i principi cardine della Carta costituzionale, avendo cura, magari, di far presente che ai diritti corrispondono anche dei doveri. Ma la declinazione di certi valori rischia di esercitare un’influenza limitata se non è suffragata dall’esempio. Uno dei primi a mettere in luce questa grande verità fu il grande storico greco Plutarco, che nei suoi Apoftegmi spartani riportò un eloquente aneddoto: “Un vecchio si aggirava nello stadio dei giochi olimpici alla ricerca di un posto a sedere ed era schernito dalla folla. Ma allorché giunse in quel settore dello stadio dov’erano seduti gli spartani, tutti i giovani ed anche qualcuno degli anziani si alzarono per offrirgli il posto a sedere. La folla applaudì gli spartani, mentre il vecchio commentava con un sospiro: tutti i greci sanno ciò che si deve fare: ma solo gli spartani lo fanno”.
Certo Plutarco, come molti altri storici e pensatori greci, compreso Platone, era influenzato da un certo filo-laconismo, ma questo non toglie nulla alla morale del suo aneddoto: le educazioni non sempre coincidono con l’educazione, e conoscere il bene non equivale a praticarlo.
Enrico Nistri – saggista