A proposito di smanie imperialistiche. Kublai Kan, imperatore malinconico. Sulla scia di un libro pensato tutto al femminile, Le città invisibili

Come altri grandi autori, Italo Calvino nelle sue opere rappresenta problematiche e aspetti dell’età in cui vive e scrive, ma ne preconizza anche molti inquietanti sviluppi: in particolare egli sonda le ragioni segrete della storia dell’uomo civilizzato, progredito, avanzato e, pur accogliendo totalmente e con entusiasmo la post-modernità (basti pensare all’ibridazione dei generi), la interroga ora in modo realistico, ora in forme altamente visionarie e densamente allegoriche.

Tra queste ultime, ho una particolare predilezione per un libro pensato tutto al femminile: Le città invisibili. Scritto “saltuariamente, un pezzetto per volta” sulla scia degli umori e ondeggiamenti dell’autore, inizialmente destrutturato, il testo si va poi costruendo e legittimando in senso narrativo come relazioni di viaggio fatte da Marco Polo a Kublai Kan. Con quale intento? Per l’ambizione, dichiarata dallo stesso Calvino, che il libro possa diventare un “continente immaginario” dell’altrove. Un antidoto, mi viene da dire, alla globalizzazione uniformante, alla fine della diatopia.

Ogni città invisibile ha un nome di donna, simbolo di differenziazione caratterizzante, ma anche di enigmaticità. Apparentemente atemporale, la città raccontata (meglio dire evocata come un poliedro dalle tante facce e dai mille colori) corrisponde totalmente alla città contemporanea, alla megalopoli dei “big numbers”, anche quando assume i tratti di un luogo arcaico, memoriale, archeologico: come Zaira, che ha scritto il suo passato nelle sue vie, in ogni suo anfratto, nei suoi angoli, ovunque, come le linee di una mano.

O come quella solo sognata, Isidora, o solo desiderata, Dorotea, imprevedibile dono divino. O come Diomira che sembra già conosciuta, ma ciononostante fa urlare per la sorpresa una donna da una sua terrazza. O come Anastasia, città ingannatrice che “risveglia”- lo dice il suo etimo- ogni desiderio, e perciò ti inganna, perché, mentre ne avverti uno, te ne sta proponendo un altro, rendendotene schiavo: senza che tu te ne accorga ti avvolge nelle sue spire, nel suo tutto di cui tu ti credi parte.

Lei “gode” tutto quello che a te non è dato di godere, mentre ti è concesso solo di abitare questo desiderio ed esserne contento. Lo spazio urbano (Tamara) è un intrico di segni, un fitto involucro dove l’uomo entra ed esce, ma nel frattempo ne legge le pagine perché è- direbbe Cassirer- homo symbolicus, capace di costruire e riconoscere i segni prima delle cose stesse.

E talvolta tali segni devono essere ridondanti, perché  facciano esistere la città (Zirma). Inutile viaggiare alla ricerca di Zora, perché può essere solo ricordata dai più sapienti del mondo, che la sanno a memoria. Costretta alla stasi e sempre uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora alla fine “languì, si disfece e scomparve”. La vita- suggerisce l’autore- non può essere autoconservazione e fissità, esiste solo come perenne mutamento. La terra infatti ha dimenticato Zora, la quale sopravvive solo nella memoria epica ( quelli che sanno a mente).

E poi c’è Isaura dai mille pozzi, sospesa tra il confine del visibile e dell’invisibile, significata dal lago nero che nutre le sue vene sotterranee, come uno Stige trivellato da sonde, pompe, tubi, saliscendi. La città dei pozzi petroliferi? Probabilmente. Non è possibile decodificare e ri-conoscere tutte queste città con i loro nomi stravaganti di donne: spazi-contenitore di oggetti, di cose materiali e immateriali, rumori, colori, incantesimi e stranezze, che hanno senso singolarmente, ma si caricano di ulteriori significati solo se letti nella loro totalità ambigua e variegata.

Calvino ha dipinto una maestosa e insieme leggera Allegoria della metropoli contemporanea e della sua complessità. Il personaggio-diaframma, Marco Polo (la cui città Venezia non è però mai nominata) è portatore di una conoscenza legata alle cose, ai fatti empirici e alla realtà, che non basta per comprendere le città invisibili, anzi dovremmo dire invivibili, dove la realtà, in omaggio a Borges, si identifica con la finzione.

Lo spazio complessivo è quello di una scacchiera, che trova la propria simulazione nell’Impero, ma è uno spazio contratto, rarefatto, astorico, mitico-simbolico. In questi luoghi-non luoghi le coordinate mentali si confondono e la città stessa è concetto vuoto, non è mai la città ideale del Rinascimento, piuttosto evoca quella metafisica di De Chirico. Città inverosimili di sole donne, città alla rovescia e trasgressive come Ipazia o che assumono forme diverse a seconda dell’occhio che le osserva e dell’umore di chi le guarda (Zemrude), città troppo grandi come Cloe, dove le persone non si parlano, non si conoscono, non si salutano, neppure si sfiorano. E tante altre ancora…

Mi devo fermare, ma non senza aver prima chiarito perché mi è tornato in mente questo libro che, secondo Harold Bloom, è l’opera più bella di Calvino. Marco Polo parla inizialmente a gesti e poi racconta cose che l’imperatore decifra solo in parte. Il sapere del primo non è più potere, ma neppure il potere del secondo ha la chiave di lettura del reale. La logica che lega le parti è insieme chiara e oscura e le stesse ragioni dell’architettura narrativa restano sfuggenti: la percezione finale è antitetica all’avventura narrata ne Il Milioneed è la consapevolezza del carattere artificiale della scrittura stessa, della comunicazione e di ogni costruzione tecnologica.

L’Atlante del Gran Kan che rappresenta tutto l’orbe terracqueo è un catalogo di forme sterminate, molte ancora a venire, ma l’Imperatore ha malinconicamente compreso che il suo sterminato potere conta ben poco, perché il mondo sta andando in rovina. Siamo presi, come lettori di oggi, dalla vertigine di tanta chiaroveggenza.

Al viaggiatore veneziano Italo Calvino, nelle ultime righe, affida il precipitato di tutto il libro: L’Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, quello è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Ora credo sia chiaro perché mi è tornato in mente questo libro.

 

Caterina ValcheraDocente, filologa e saggista

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