Il guru che ha fallito. Carlo De Benedetti dichiara il fallimento del suo Pd

Ma rilancia con Radicalità, un libro pretenzioso

Carlo De Benedetti è stato il guru della sinistra italiana, cioè del Partito democratico a vocazione maggioritaria, attraverso “La Repubblica” ed Eugenio Scalfari. Il guru ha fallito, come dimostrano le vicende del suo Pd (tessera numero uno) e del suo quotidiano (ex proprietà).

Eppure non demorde, come prova il suo libro “Radicalità”, fresco di stampa, sottotitolato “Il cambiamento che serve all’Italia”. La quarta di copertina fa capire di cosa parla: “Proviamo a radicare il nostro progetto di cambiamento in due punti: la salvezza del pianeta e la dignità del lavoro”. Siccome le pagine del libro, i cui proventi andranno in beneficenza, sono soltanto 140, viene naturale chiedersi se basteranno a spiegare in concreto il palingenetico programma che del resto mostra, per la trascendentale vastità, la natura “religiosa” piuttosto che politica della guida spirituale della sinistra di governo.

Innanzitutto, il libro ha un pregio non comune al tempo d’oggi. È ben scritto in prosa chiara e italiano corretto. Sicché è di facile lettura, una qualità che appunto mi ha indotto a leggerlo, oltre la personalità dell’Autore che, per biografia ed età, ne ha da dire. L’Autore muove da un punto di partenza perentorio e tagliente: “Da almeno dieci anni, l’Italia si trova in una stagnazione che prelude alla decadenza”. Ritiene che la politica, in generale, “non sembra avere più l’ambizione trasformativa e propulsiva”. Perciò conclude apoditticamente, ma illusoriamente: “Ecco perché bisogna cambiare la politica”. Cambiare la politica? Come? Con una “radicale discontinuità”. Egli usa “il termine radicalità in senso etimologico, intendendo un cambiamento da operare alla radice”.

Nonostante l’Autore si proponga di rivolgersi agl’Italiani e di guarire “radicalmente” i mali dell’Italia, il libro ha il difetto principale di saltellare tra politica interna e internazionale, tra situazione globale e situazione nazionale. Ovviamente, nessuno nega l’interdipendenza degli Stati e delle economie, la cosiddetta globalizzazione. Tuttavia, allargando troppo la prospettiva, viene fuori una mescolanza di cause ed effetti che rischia di confondere il senso radicale delle soluzioni prospettate, accettabili oppure no. Inoltre, l’Autore ha opinioni tutte sue, fino alla stravaganza, sui fatti della geopolitica. Giunge persino a scrivere: “Il gigante cinese, uscito dall’utopia maoista ed abbracciando il comunismo di mercato, ha conosciuto uno sviluppo galoppante e da produttore di gingilli si è trasformato in un gigante della tecnologia e degli armamenti”.

Orbene, lasciatemelo dire, un’espressione bislacca come “comunismo di mercato” non dovrebbe permettersela un ingegnere e meno che mai l’Ingegnere per antonomasia. Al quale, pertanto, dovremmo chiedere di rispondere alla seguente domanda: “Lo sviluppo galoppante della Cina in quale misura dipende dalla dittatura comunista e dall’economia di mercato?”

L’Autore, un imprenditore capitalista, pronuncia giudizi non solo inaccettabili, ma anche incoerenti e smentiti dai fatti. Egli riesce a sorprendere anche uno studentello nell’affermare: “Hanno ragione gli economisti secondo cui il capitalismo, così come oggi lo intendiamo e lo pratichiamo, ha tradito la sua promessa fondamentale: il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone possibile. Oggi produce invece enormi ricchezze destinate a pochi a spese non solo della larga maggioranza, ma del pianeta stesso”.

Che una forte aliquota di economisti (meglio: pseudo economisti!) non ami il capitalismo principalmente perché non si comporta come loro vorrebbero, è vero. Ma che il capitalismo abbia ridotto la ricchezza a disposizione della popolazione mondiale costituisce una sciocchezza bell’e buona. Cosa, se non l’economia concorrenziale, cioè il capitalismo più il mercato, ha consentito di accrescere il numero degli esseri umani sulla terra e di migliorarne in generale le condizioni materiali e morali? Non solo i miliardari sono aumentati di numero e diventati più ricchi, ma anche i poveri sono diminuiti di numero e diventati meno poveri.

Dunque, di che sproloquia il guru De Benedetti? Nell’economia libera, il mercato produce ricchezza senza toglierla a chicchessia perché i soggetti dello scambio guadagnano entrambi. Una volpe dei mercati, astuta come De Benedetti, lo sa fin troppo bene, ma nella veste di santone guarda in cielo anziché in terra.

Il libro è ricco di osservazioni e proposte. L’Autore, per esempio, osserva: “Purtroppo, il Pnrr è un piano concepito con lo spirito della mia generazione: non contiene alcuna radicalità. Si parla troppo di autostrade e ferrovie e troppo poco di ambiente”; e propone, per esempio, di istituire e potenziare “il reddito di intelligenza, per scovare e far crescere le eccellenze che sbocciano sotto i campanili”.

A parte la vena poetica, si tratta di borse di studio. È favorevole, ovviamente direi, all’imposta patrimoniale annuale e all’imposta di successione progressiva. È contrario, ovviamente, all’imposta proporzionale, che anch’egli indulge a chiamare flat tax, quando la proporzionalità è l’unico criterio di giustizia mentre la progressività è discriminatoria.

Il suo giudizio sulla situazione italiana è senza appello: “Due cose sono sempre più evidenti: che chi ci governa dimostra un’ignoranza istituzionale e una protervia preoccupante; e che le politiche finora varate vanno in tutt’altra direzione rispetto alle vere necessità del Paese. Ma d’altra parte, a contrastare queste politiche, non c’è nessuno”. E con ciò il guru ammette il fallimento, giacché la metà dei governanti divennero nel tempo adepti della sua “religione”.

Tuttavia l’acme dello sconforto per il rovinoso insuccesso viene toccata nel giudizio sulla sua degenere creatura politica: “In Italia, il dibattito sulle primarie del Pd ha messo a nudo una compagine dominata da baroni stanchi, generali rimasti senza esercito dopo aver conquistato la borghesia e perduto il popolo. Per un partito riformatore, questa è una condanna a morte. Sotto quel simbolo la sinistra è finita”.

L’Autore, da sempre elettore del suo Pd, lo rivoterebbe “con fatica, con un certo disgusto”, essendo consapevole di votare “per un partito che considero irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali: l’equivalente di una seduta psicoanalitica sul ponte della nave che affonda, senza neanche l’orchestrina”.

Ex ore tuo te iudico. Amen!

 

Pietro Di Muccio de QuattroDirettore emerito del Senato, Ph D Dottrine e scienze politiche, già parlamentare

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