Sul segmento esistenziale, che ci preoccupa non da sempre, ma da quando l’uomo si è dissociato dalla natura, sentendosi autonomo, distanziato, come se egli non fosse totalmente natura, ma suo ospite, venuto da un metafisico cielo non naturale, costretto a naturalizzarsi in seguito ad una cacciata per una colpa d’origine, permangono senza risposte le domande che il Cardinale Fernando Filoni si pone (e ci pone) su BeeMagazine del 20 gennaio scorso: “Chi sono io? Perché vivo? E Poi?”
Enigmi profondi della nostra vita, che non si risolvono vivendo: anzi, viviamo condannati a non sapere chi siamo e cosa facciamo: abbiamo soltanto la certezza di sparire, alla fine, per sempre nel cielo oscuro del non saperci identici con il personaggio di noi che è vissuto con il nostro nome.
A meno che non ascoltiamo le parole della Fede, che ci risponde con l’incontro con il piccolo altro (l’altro uomo) e con il grande Altro (Dio, il “totalmente altro”), incontro d’Amore verso Entrambi, con cui realizziamo, riscaldandolo, il freddo non responsivo del vivere, la glaciale non rispondenza dell’esistenza.
Ha ragione il Cardinale Filoni, soprattutto per me che sono un uomo di Fede: e, però, la mia Fede si pone domande non sulla fede stessa, ma su come il suo linguaggio ha ridotto Dio, limitandolo a identità vivente nella logica del verbo essere e nella designazione di un nome delimitativo: insomma, Dio vissuto come altro uomo, che continuamente tradiamo, come nell’origine, perché, sebbene ci inviti all’Amore, ancora la logica di Caino uccide: negando il familiare, il vicino, il lontano con la guerra, vera fabbrica “armivora” di uccisioni e di stragi senza fine.
Insomma, l’arroganza perpetua dell’uomo sembra inguaribile, essendo già arrogante la sua intimità di ragione che argomenta con il linguaggio, questo dono dal male inguaribile, che ha tradotto con la parola il soffio con cui Dio l’ha vivificato dalla natura “argillosa”, tradendo il soffio creativo e la natura dell’essenza, sostanziandosi come identità autonoma, non relazionale, per cui anche l’amore è significato come pratica emozionale sentito dall’io sono come garanzia di sé da parte dell’altro amato, un io-sono, a sua volta, che ama nel ritorno speculare dell’amore di sé.
Insomma, anche l’amore, che sembra al Cardinale la risposta al paradigma d’esistenza, è monocornia facile ad essere vissuta come discordia, perché l’io non rinuncia a sé, neppure dopo l’esempio sacro della crocifissione per amore, che diventa modo esemplare di crocifiggere il tu che non ama l’io nel modo in cui l’identità dell’io lo pretende, secondo l’abuso della sua arroganza identitaria.
Dunque, nella profonda riflessione del Cardinale Filoni noto una discrepanza irrisolta tra l’allusione del dire ed il dire senza illusione, entro cui mi sento parlato da una realtà decostruente, irriverente, deludente, insupponente, insomma decadente: a cominciare dagli stessi uomini religiosi di Fede, che non si amano tra loro in nessuna istituzione ecclesiastica; uomini laici con Fede, che si rodono e si corrodono tra loro in qualsiasi costituzione civile, amicale, familiare.
Questa delusione nel principio di realtà in rispondenza della elusione nel principio di idealità delle parole interessanti del cardinale Filoni mi spinge a chiedermi se il vizio di fondo della non coerenza tra i due principi non sia all’interno del codice dell’arroganza umana, là dove l’uomo si sente privilegiato rispetto alla natura, reputandosi unico a possederlo tra le creature viventi, e si sente pure capace di competere “in lotta” con l’angelo: il linguaggio, anzi la struttura della lingua, che è responsabile della logica del confine, della divisione tramite la pressione dell’identità, della separazione, della ribellione, tramite l’ostentazione dell’ individualità-ego, senza l’io relazionale.
Ha ragione il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: c’è l’esigenza di parlare di Dio con una diversa logica cosciente, parlante una lingua diversa da quella della funzione usuale; l’urgenza di parlare con Dio, enunciando una lingua differente da quella che mostra l’oggettività come cosa dimostrativa.
Affidare la Presenza di Dio al verbo “essere” significa pretenderne l’identità, come qualunque soggetto di proposizione identitaria: identità ‘come’ di analogia (Dio è Logos, Dio è Verbo, Dio è Luce), identità ‘con’ di relazione condividente (Dio è con il Suo popolo, Dio è con Chi soffre, Dio è con me); posso anche identificare Dio entro una relazione allocutiva, per la quale Egli è il Tu in rapporto comunicativo al mio essere io, oppure io posso essere il Suo tu, in comunicazione dialogica con me. Dio può essere solamente “Colui che è”: l’identità esprimibile logicamente con il verbo essere acquisisce valore di esistenza, per cui Dio è esistenza reale, realmente esistente nell’essere che lo fa essere altro nella Sua esistenza: una tautologia a corto circuito dell’essere come realtà estesa fino all’ex-sistenza distesa di Dio.
Insomma, Dio è realtà linguistica all’interno della struttura della lingua, pertanto all’interno della grammatica, con cui si compongono le proposizioni grazie alle quali parliamo di Dio, della scrittura, del libro, pure dell’oralità con cui l’io è parlato in forma dialogica, rivolgendosi nel silenzio interiore al Tu di Dio, che parla con le parole apprese da noi nella Scrittura. La teologia è profondamente linguistica e concettuale dentro la logica pre-strutturata della nostra determinata lingua; il modo di sentire Dio è “irretito” entro i filamenti della ragnatela del linguaggio, dentro i quali la coscienza si parla anche da dentro la lingua muta del silenzio: che è enunciazione parlante, anche senza il suono con cui la bocca parla, rivolgendosi a qualcuno. L’uso del verbo essere, come realtà d’esistenza, presuppone l’eccesso, dove inserire Dio al di là di ogni confine, che può essere solo soglia da dove scorgere l’immenso, con il limite che l’immenso è concetto strutturato entro la semantica dello spazio, da cui può scaturire un “di là” sempre più vasto, oltre dove l’immensità è nome, sostantivo, che sostanzia lo spazio grande nello “sconfinìo” della vastità.
Ma, la sola categoria spaziale non offre l’oltre-senso dell’eccedenza di Dio, in concordia con la Sua in-cidenza: sento il bisogno logico di unire intimamente lo spazio e il tempo, il cronotopo con cui immaginare cronotopicamente Dio: l’intra-senso di infinito è da preferire all’estra-senso di Dio, a patto però di aggiungere altre parole di richiamo, con cui densificare il sentimento di infinito, a cui associo il suono-senso di intenso. Infinito ed intensità, a cui sono da associare intensività, intensione, intenzione, intenzionalità: sono termini che preludono alla logica inclusiva dell’intrinseco, dell’inerente, dell’indeterminato, entro cui l’identità è analogica partecipazione dell’essere in consustanziale stato di essere come essente dentro l’inerenza di ogni impossibile estrinsecazione di ogni differenza, essendo ogni ente l’essente inerente ogni propria identità. Compresa quella pronominale basata sulla distinzione di io e tu, non potendo avere ognuno un’identità propria all’interno della lingua comune e della natura, che trasmette in noi il suo codice del vivente e inonda il vivere con la comunione costante della sua linfa vitale, analogicamente infra-comunicativa.
Ad una concezione logocentrica di Dio, la cui Presenza affidare al linguaggio, preferisco l’emozione di una visione ‘in-centrica’ del divino: si tratta di un centro partecipe del dovunque (come la “sfera” di Pascal), caratterizzato da una densità in cui è incluso l’involgimento dell’intimità in cui il profondo rende universo il partecipe di ogni particolare esistente. In questa versione ‘in-centrica’ di Dio, eco-centrica ma mai ego-centrica, perché dentro la singolare intimità più intima ognuno trova la natura, di cui è parte inclusiva nel comune vivente che vive in noi come nella comunità che vive, solo il raccoglimento può cogliere Dio come raggio interiore di ‘spirale’ silenzio, al di là dell’essere identità. Oltre l’identità dell’essere Dio e dell’esserci di Dio si può meditare l’orizzonte della parola mancante, cogliendo nella parola che parla di amore e di Dio la superfice di un’apparenza insufficiente: del resto, lo stesso nome con cui parliamo dell’altro e di Dio è semplicemente designativo, traducibile con “questo”, con cui si tende ad oggettivare come presenza Dio, che invece è l’onda d’inerenza di ogni esistenza, di cui Egli è l’in-esistenza.
L’in-esistenza è la vera intima es-istenza del divino: l’“in” è il suono di ogni cosa, il codice di ogni forma, la coscienza di ogni pensiero, la grammatica universale di ogni lingua dell’in-timità, dell’Amore come in-timità, perché facendo abitare dentro di sé l’altro, da lui non pretendo un esterno, esteriore, estraneo tornaconto: grammatica fatta di nessi, connessioni, intrecci di silenzi e parole, relazionate nell’insonorità che inonda ogni creatura di senso “in tepore”. Il verbo essere è l’essente dell’esistenza dell’io di Dio come pronome, indicativo di nomi che ostentano identità di parte, in disparte: ma, è nell’in-esistenza che l’io si riconosce in Dio come atto semplice di un composto, suono di una melodia, onda di una gravitazione, goccia di un mare che continua fino all’evaporazione nel cielo azzurro.
Sì, dopo tanto parlare di Amore e di Dio con l’effetto dell’odio, della guerra nel sempre che accompagna il tempo del dire Dio, è bene percorrere altro itinerario: nell’intimità, più profonda dell’amore, l’”io sono” diventa non un’identità di fronte al confine dell’altro-identità, ma inerenza d’inclusione, capace di riconoscersi come intensità in cerca d’infinito: in fondo, il senso del vivere è da trovare non nella scoperta di un ‘è’ caratterizzante l’io e Dio, ma di un ‘in’ dove essere come ‘conchiglie’ di concavità inclusiva. Nell’in-clusione troviamo l’in-finito: ossia, il non confine, la non identità, questa fissazione dell’idem, con cui amiamo sempre lo stesso: il nostro io come io, l’altro come identificatore dell’io, Dio come rafforzatore della sicurezza dell’identità dell’io.
A partire dalla rivoluzione del verbo essere, conciliato nientemeno con il suo contrario, il non essere, è la giusta visione del senso del vivere, da cercare oltre l’identità, oltre lo ‘stesso’ di me, oltre il me ‘ridotto’ ad essere io: “Chi sono io?”, chiede il Cardinale, a cui rispondo con un’altra domanda: “come liberarmi dal Chi sono io?”. La cultura dell’in-finito, entro dove non ha senso che ‘io sia’, mi fa sentire libero dal confine, dunque capace di accorgermi della follia della guerra per conquistarlo; libero dalla mia affermazione, per il raggiungimento della quale l’amore per l’altro può essere funzionale allo scopo da realizzare; libero dall’amore, come incontro di forze comuni per ottenere l’aspirazione del partener più forte, più importante, più ragguardevole.
Nella ricerca del “ragguardevole” colgo la cecità di tanta retorica sull’amore: a me basta l’inclusione del “senza pretese”, per il resto… cerco di decostruire i linguaggi dell’identità, da dove anche una farfalla che aggiunge colore a un fiore già logorato con le ani in continuo movimento, è senso di un vivere che mi dona l’inerenza stupita del meraviglioso.
Ha senso la vita? Sì, certamente, ne ringrazio Dio: e perché?
Perché ogni giorno guardo la luce al tramonto, la stessa luce di domani al tramonto…la stessa luce al tramonto di infiniti domani, dunque il tramonto ‘non c’è’, considerato nel suo eterno ritorno. Ecco, accorgermi che “non c’è” un fenomeno che “c’è” significa vedere con lo sguardo non miope, ad accoglierlo è l’infinito che invita a vedere anche (o soprattutto) con gli occhi chiusi, situazione in cui le cose sembrano non esserci, eppure ci sono fino al loro tramonto che, ritornando, non “c’è”. Nella dialettica del “sono” e del “non sono” scopro il vero esserci: intimo oltre l’amore, scoprendosi consonanza “abissale” con il tutto sconfinante con l’in-finito del Dio in-esistente.
Carlo Alberto Augieri – Professore Ordinario di critica letteraria ed ermeneutica del testo