Giornalismo e processi mediatici

Un dotto excursus di un magistrato, con la passione per la scrittura. Processi celebri prima della tv e dopo

Un amico musicista, per uno spettacolo che si basa essenzialmente su alcune poesie di Edgar Lee Masters tratte dall’antologia di Spoon River e trasformate in canzoni (un’operazione del tipo di quella che realizzò negli anni ’70 De André col bellissimo album Non al denaro non all’amore né al cielo) mi ha chiesto di commentarne una e mi ha assegnato Il direttore Whedon (editor Whedon, nell’originale).

Whedon nella poesia epitaffio di Masters è il direttore di un giornale che ha sempre falsato la realtà: per insabbiare uno scandalo, per disseppellirlo al fine di vendicarsi di qualcuno per distruggere reputazioni o, più banalmente, per vendere più copie.

Come tutti i personaggi di Masters, anche il direttore Whedon è realmente esistito e l’autore lo inserì nell’antologia non solo per vendicarsi di lui ma per denunciare un antico problema americano: quello della stampa corriva e disonesta, già pesantemente accusata da Benjamin Franklin, che nel 1730 aveva puntato il dito contro alcuni giornalisti senza scrupoli, i quali, scriveva Franklin,“lanciano false accuse ai più innocenti tra noi e aumentano così inimicizie che certe volte si risolvono in duelli”(allora il duello era un modo molto in voga di risolvere certe questioni). Dunque il problema della stampa che non sempre fa il suo dovere -per così dire- è piuttosto risalente nel tempo se a denunciarlo fu addirittura Benjamin Franklin nel 1730 senza che ciò significhi, ovviamente, disconoscerne il ruolo assolutamente fondamentale per la tenuta di democrazia.

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La nostra Costituzione, del resto, in diverse disposizioni ma soprattutto nell’articolo 21 riconosce tale ruolo tutelando ampiamente la libertà di stampa ma fissando al contempo dei paletti che ne garantiscano la correttezza e anche tutte a tutela dei cittadini. Ma veniamo al tema giustizia e media, che è come dire giornalismo e magistratura, rapporti tra il mondo della stampa, dei media e il mondo della giustizia.

Un tema quanto mai attuale, direi di scottante e perdurante attualità, come dimostra il fatto che negli ultimi mesi è stato oggetto di due significative pubblicazioni.

Mi riferisco a Delitti in prima pagina di Edmondo Bruti liberati, già procuratore della Repubblica a Milano e a Giustizia mediatica di Vittorio Manes, avvocato e docente di diritto penale nell’università di Bologna e già docente presso l’Università del Salento. Un tema dalle molte sfaccettature, che può essere riguardato sotto molteplici punti di vista: quello dei giornalisti, dei magistrati (ovviamente), della politica, del semplice cittadino.

La giustizia e i suoi protagonisti, per primi i magistrati, costituiscono infatti un tema ricorrente della comunicazione pubblica, si tratti di quella giornalistica o della comunicazione politica. Non c’è telegiornale che non parli della giustizia e del suo funzionamento, che non si occupi delle notizie inerenti fatti criminosi -si tratti di gravi fatti di sangue, di violenze contro oggetti deboli, di fatti ricollegabili al fenomeno dell’immigrazione, di delitti contro il patrimonio, i fatti di mafia o di terrorismo- e che non ricolleghi ad essi l’operato delle forze dell’ordine e della magistratura. Ovviamente il modo di rappresentare tali fatti, la quantità delle notizie riferite, la stessa collocazione di tali notizie nell’ambito del telegiornale non sono indifferenti alla percezione che di tali fatti ha l’opinione pubblica.

È evidente, per esempio, che parlare con assiduità di gravi fatti di sangue o di furti e rapine, magari collegabili al fenomeno dell’immigrazione, vale a far percepire in maniera rilevante la sensazione di insicurezza che tutto ciò determina e ad ascriverla alla presenza in Italia di una immigrazione considerata come massiva; anche se, magari, i dati statistici non confermano quanto, talvolta ossessivamente, viene ripetuto dai media.

In uno studio del professor Gabrio Forti di qualche anno fa, è emerso che gli omicidi, pur rappresentando lo 0,4 dei crimini denunciati, raggiungono una media di spazio mediatico pari al 20% mentre, per esempio, i reati contro la pubblica amministrazione, fatta salva la stagione di “mani pulite”, raggiungono percentuali molto più basse.

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Fatti giudiziari di pubblico interesse o di interesse del pubblico?

Scrive sul punto uno studioso che si è molto occupato di questo genere di problematiche, Glauco Giostra: “Tradotta in un linguaggio atecnico e sensazionalistico, l’informazione giudiziaria offre del fenomeno rappresentato un’immagine infedele … La notizia guadagna la ‘ribalta’ dei mezzi di informazione di massa se riguarda un fatto giudiziario non già di pubblico interesse ma di interesse del pubblico, un fatto cioè -prosegue Giostra-  ad alto coefficiente di appetibilità giornalistica (perché) nell’ottica mercantile prioritario non è dare le notizie più importanti ma quelle più richieste”.

Esemplificando: rispetto a notizie che possono qualificarsi di pubblico interesse (si pensi a certi scandali giudiziari che hanno sconvolto la nostra economia come il crack Parmalat o il crack Cirio, o ancora, all’incidenza che fatti di corruzione hanno, addirittura, sul bilancio dello Stato o, se vogliamo,  anche a fatti di mafia) si preferisce incentrare l’attenzione su notizie e casi di  interesse del pubblico: Novi Ligure, Cogne, Garlasco, Perugia, Avetrana, Bergamo, recentemente anche Casarano sono nomi di località italiane probabilmente sconosciute ai più (con l’eccezione di Perugia e Bergamo) ma divenute notissime a causa di gravi fatti di sangue che vi sono stati commessi o ad esse correlati, classici della cronaca nera i quali, ognuno con le sue peculiarità (si tratti della personalità paranoide di una madre che uccide il figlio o dell’omicidio connotato da movente sessuale o di quello per così dire “gratuito”, commesso solo per punire la felicità delle vittime) hanno tutto per appassionare i fruitori dei media.

L’eccesso di esposizione mediatica, alcuni dati impressionanti. Alcuni scandali del Dopoguerra

Non può non rilevarsi, infatti, l’eccesso di esposizione mediatica che, rispetto ad essi, si è registrato: per esempio, sull’omicidio Kercher dal 1 novembre 2007 al 31 Dicembre 2009 sono stati effettuati ben 858 servizi nei telegiornali prime time di Rai e Mediaset (in media più di uno al giorno); su Garlasco dal 13 agosto 2007 sempre al 31 Dicembre 2009 si sono registrate 749 notizie. Sono numeri impressionanti che ci dicono quanto sia intrigante il caso irrisolto, dubbio, magari morboso. Ovviamente, casi del genere non sono certo delle novità, nel nostro Paese. L’Italia del dopoguerra si appassionò allo scandalo Montesi (che costò la carriera ad un noto esponente politico) e al processo Fenaroli, dividendosi, come spesso capita fra “innocentisti”e “colpevolisti”; ancora prima, all’inizio del secolo scorso, grande fu l’interesse per il processo Murri (in cui due figli del più illustre clinico italiano, il professor Augusto Murri, furono accusati e poi condannati per l’omicidio del Conte Bonmartini, marito di Linda Murri, considerata mandante del delitto per ragioni di natura anche sessuale), come grande fu anche l’interesse per il processo nei confronti di Leonarda Cianciulli, nota anche come la “saponificatrice di Correggio”) la prima serial killer italiana.

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I processi quando non c’era ancora la televisione

Ma rispetto a Perugia, Cogne o Avetrana va registrata una grande differenza: in tutti i casi che ho testé citato, non essendoci ancora la televisione, la stampa si limitava a registrare le cronache del processo, con una incidenza mediatica comunque molto limitata; tra l’altro, nelle cronache di quei processi (celebrati con rito inquisitorio e fondati, soprattutto, sulle risultanze dell’istruzione formale) tutto -o quasi- si giocava sulle prove orali, sulle deposizioni dei testi e sulle ricostruzioni operate nel processo dai funzionari di polizia; mentre oggi, grazie soprattutto alla televisione e al cinema, ma anche al rito processuale di tipo accusatorio, la caratteristica più saliente è divenuta la spettacolarizzazione mediatica di questo tipo di processi, sovente, peraltro, fuori dalla sede propria che è quella processuale.

Inoltre, mentre le indagini scontano l’effetto CSI, le metodologie ultrasofisticate, l’apparato tecnico-scientifico che “si vede” nelle immagini dei servizi, gli uomini in tenuta da laboratorio che sezionano la “scena”del crimine, la fase processuale evoca nel resoconto giornalistico e nelle immagini televisive il dibattimento all’americana con deduzioni e controdeduzioni, con le dichiarazioni ai microfoni delle tv davanti ai tribunali degli avvocati, con il colpo di scena dell’ultima rivelazione, dell’ultimo testimone.

Il processo alimenta una quantità crescente di spazio dedicato alla personalità degli imputati, dei testimoni, delle vittime, persino dei giudici e dei consulenti.

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Verità e processo

La spettacolarizzazione mediatica del processo è diventata così rilevante, negli ultimi anni, che a farne le spese alla fine è stato proprio il processo (intendo quello celebrato nelle aule di giustizia e non sui media) che pure dovrebbe essere il protagonista principale.

Come è noto, qualsiasi sistema penale, in qualsiasi società, si configura come un complesso di norme di comportamento volte a regolare i rapporti sociali attraverso un meccanismo finalizzato ad esercitare un controllo sulla criminalità. I modi di tale controllo sono, ovviamente, i più diversi, ma il processo penale è lo strumento attraverso il quale si esercita tale controllo e può assumere schemi e forme diverse perché diversi sono i modelli di appartenenza e diverse sono le estrinsecazioni pratiche.

Così, per esempio, i sistemi di common Law si caratterizzano per quello che viene definito il Fair Trial, ossia le regole del gioco uguali per le parti è una procedura garante del loro rigoroso rispetto.

I sistemi di Civil Law -e il nostro in particolare- pongono in evidenza lo scopo cui tendono che è quello della ricerca della verità in riferimento ai fatti oggetto della causa, nel rispetto di principi e leggi costituzionali, della normativa ordinaria e delle regole procedurali. Ora, su cosa sia la verità rispetto al processo -tema quanto mai affascinante, per risolvere il quale occorrerebbe, probabilmente, tutta intera una sessione di studio- ovviamente non mi soffermo. Basti dire che la verità del processo -che poi è la verità raggiunta nel processo- non ha nulla di assoluto, non è una “verità sostanziale, materiale, ma una verità formale, debole, relativa perché umana”; e tuttavia è la sola verità raggiungibile.

Intervistato da un giornalista, il presidente della Corte d’Appello di Perugia, all’indomani della sentenza che mandava assolti dell’omicidio Kercher Amanda Knox e Raffaele Sollecito, nel tentativo di spiegare le ragioni di quella pronuncia, ebbe a dire (vado a memoria): Questa è la verità che noi abbiamo raggiunto al termine del processo, ma non posso escludere che Amanda e Raffaele siano colpevoli (con il che, probabilmente, ha contribuito a disorientare ulteriormente l’opinione pubblica) ma ha detto una verità solare).

Se, dunque, scopo del processo è quello di accertare la verità (processuale) dei fatti, molteplici sono gli ostacoli che lungo la strada si frappongono a coloro che sono deputati a tale compito: forze dell’ordine, magistrati e giudici, ma anche agli altri protagonisti del processo, come gli imputati, le parti lese, i difensori, gli stessi testimoni.

A volte si tratta di ostacoli endo-processuali (su cui ovviamente non mi soffermo). Altre volte, diverse -e più gravi- sono le interferenze al cammino accidentato del processo verso la verità che giungono da fattori esterni. Uno di questi ostacoli, tra i più insidiosi, è proprio il cosiddetto processo mediatico.

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Il processo mediatico, un ostacolo alla ricerca della verità

La mediatizzazione del processo, oggi sempre più rilevante, non è più solo curiosità (come poteva essere per i processi del secolo scorso, non caratterizzati dall’intervento delle tv), ma è anche strategia delle parti, che si avvalgono delle telecamere -e comunque dei media- a fini processuali.

Scrive Antoine Garapon nel libro L’illusione della democrazia diretta: “Nulla di nuovo nel fatto che l’opinione pubblica reagisca di fronte ad alcuni casi giudiziari ma oggi assistiamo al trasferimento di alcuni processi nei media… ogni organo di stampa, piuttosto che informare sul lavoro della Giustizia, adotta il punto di vista di una parte, salvo cambiare nel corso del processo… e alla fine giudica sostituendosi al giudice … La difesa non è da meno. Si assiste, attraverso la stampa, a dialoghi a distanza fra avvocati. Ma non esiste parità di armi fra i media, che offrono la ribalta a chi racconta la storia migliore, nel modo migliore. Rafforzano l’effetto della utilizzazione di verità a scapito della verità, la seduzione a scapito dell’argomentazione”. E qui Garapon cita le dichiarazioni di un noto avvocato francese. “Jack Vergès non fa mistero della utilizzazione dei media in una strategia di difesa”. “Difendere, per l’avvocato -scrive- è presentare, con gli stessi fatti che servono da supporto all’accusa, un’altra storia altrettanto vera e altrettanto falsa della prima. E convincere giudici e giurati che è quella giusta. Ma non si tratta di raccontare una storia qualsiasi. Bisogna trovare quella che darà un senso al destino del criminale e al suo processo”.

Nel processo mediatico l’inchiesta giudiziaria viene di solito rappresentata in maniera eccessivamente semplificata, come una sorta di duello simbolico fra chi rappresenta l’accusa e l’inquisito con il suo difensore, rispetto al quale, tuttavia, arbitro non è più il Giudice (quasi sempre estraneo alla contesa) ma diventa il giornalista. Che però, molto spesso, finisce col “veicolare gli stereotipi più classici, come vuole il suo pubblico”. Con una differenza fra mezzo televisivo e carta stampata: che in tv l’attenzione si incentra prevalentemente sull’attività svolta dalla polizia e dalla magistratura, mentre sulla carta stampata la prevalenza viene accordata al reo o alla vittima.

Vittorio Manes nel libro Giustizia mediatica, Il Mulino, ha scritto di “sacralizzazione della vittima”che ha portato allo sbilanciamento del processo, “non più reocentrico” ma… “victim oriented”. “Tutte le fasi procedimentali e processuali -scrive Manes- ne risulteranno contaminate; anche la dinamica probatoria -il clou dell’istruttoria dibattimentale-  ne subirà un sensibile condizionamento: del resto, se il credito morale di cui gode la vittima rende sempre giusta la sua causa e … il racconto vittimario sempre autorevole, la sua rappresentazione nel palcoscenico mediatico la trasformerà in “storia”, annientando …. l’inattendibilità di ogni versione discordante …”. Io non credo sia proprio così, ma certo, l’interferenza è innegabile.

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Molto spesso i processi non si chiudono con la sentenza ma proseguono sui media

Con altre “riletture” degli atti o con inchieste e servizi sui protagonisti, almeno fino a quando l’attenzione del pubblico non mostra di regredire. Se è vero che -come scrive Aldo Grasso- “il processo è un genere”, è altrettanto vero che l’immagine è percezione: essa si rivolge ai sensi più che all’intelletto, sicché ogni ricostruzione filmica dei fatti criminosi (penso alle cosiddette docu-fiction ma anche ai famosi plastici di Vespa) sono l’esatto contrario del processo, dal momento che in esse i fatti sono, per così dire, rivissuti in diretta, quasi dal vivo, mentre nel processo il delitto viene ricostruito in maniera indiretta, attraverso le testimonianze, le perizi; viste attraverso i media le immagini trasmettono un senso di immediatezza, che non può esservi nel processo, nel quale la ricostruzione è, sostanzialmente, in differita. Ed è la sola, quest’ultima, che consenta di esprimere un giudizio il più possibile corretto.

Perché -come scrive Hannah Arendt- il giudizio consta di due momenti: il primo è quello della “immaginazione, in cui si rivedono oggetti non più presenti, che è preparatorio per il secondo momento, che è quello della “riflessione” e che costituisce la vera e propria attività del giudicare. Un’attività che per essere imparziale necessita di una certa astrazione dai fatti, paradossalmente richiede -e cito ancora Garapon- “di non vedere”, per cui il telespettatore che guarda la docu-fiction non può mai pretendere di giudicare.

Tornando, per un attimo, alla vicenda del processo di Perugia per la morte di Meredith Kercher, all’indomani della Sentenza d’appello venivo avvicinato da alcuni miei concittadini, che fra lo stupito e lo scandalizzato mi chiedevano di spiegare le ragioni di quel clamoroso ribaltamento, in appello, della condanna in primo grado.

Come già detto, sui protagonisti di questo processo si è scatenato un can can mediatico ad opera di quella compagnia di giro (di cui fa parte anche qualche mio collega) adusa a sputare verità preconfezionate, ricavate da indizi attinti in alcuni atti processuali pubblici, colorati in maniera tale da solleticare il più possibile l’interesse del pubblico.

È stato così che, alla pronuncia della sentenza d’appello, quella assolutoria, lo schieramento colpevolista, di gran lunga preponderante, non ha trovato di meglio che scatenarsi urlando contro il collegio giudicante che, assolvendo, aveva osato andare di contrario avviso. Da qui, anche, il disorientamento dei miei concittadini -i quali, evidentemente, avevano visto molti dei programmi televisivi sull’omicidio di Meredith- alla pronuncia d’appello, che non è risultata in linea con le loro “verità” preconfezionate.

Tutto il contrario alla pronuncia della Corte d’Assise d’Appello di Firenze che, con la condanna, avrebbe “rimesso le cose a posto”, almeno secondo l’opinione corrente, formatasi -ripeto- soprattutto sugli special di Bruno Vespa o di suoi più o meno famosi epigoni. Poi l’annullamento senza rinvio della sentenza di Firenze ad opera della Cassazione ha messo la parola fine all’intera vicenda, probabilmente contribuendo a rendere meno chiara, all’opinione pubblica veicolata da tanti programmi tv sul delitto, l’intera vicenda.

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Interferenze: influenza dei media sul processo

Evidente, già da queste note, l’influenza che i media possono esercitare sui fruitori del messaggio mediatico. Sorvolo sul contenuto di alcune indagini scientifiche ed esperienziali effettuate sul punto da illustri studiosi come Daniel Kahneman o Amos Tversky. Mi limito solo a richiamare Marshall McLuhan , grande sociologo canadese, inventore del noto ossimoro metaforico “villaggio globale” ( cui si devono i primi studi sulla incidenza dei media sull’opinione pubblica) il quale evidenzia come i mezzi di comunicazione che producono il maggior grado di coinvolgimento emotivo del fruitore siano il cinema e la televisione, la cui presenza, rispetto alla carta stampata, è diventata di gran lunga preponderante. Molto importante è, come dicevo prima, il modo della comunicazione.

Per esempio, se si dice che Tizio è stato condannato ad una determinata pena per un reato a lui ascritto, si dà un’informazione sostanzialmente neutra; ma se a tale informazione si aggiungono ulteriori elementi  (se, per esempio, si dice che, molto probabilmente, sta per essere condannato un innocente; che le prove acquisite dall’Accusa non sono decisive; che le indagini tecniche sono sbagliate; che i Giudici hanno mostrato un atteggiamento persecutorio o, a seconda dei casi, che i giudici fanno politica), ecco che la notizia non è più “neutra”, ma finisce con l’incidere -ed anche pesantemente- sull’opinione pubblica. Incide anche su chi è chiamato a decidere?

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I media possono incidere nelle opinioni e nelle valutazioni dei giudicanti?

Anche in questo caso sono state fatte indagini e degli esperimenti. In particolare, sono stati formulati dei questionari ai Giudici delle Corti d’Assise, tanto a quelli togati, quanto ai giudici popolari. Ebbene, alla richiesta di valutazione delle ricostruzioni effettuate in trasmissioni televisive, mentre il processo è ancora in corso e non si è giunti alla sentenza definitiva, la risposta dei giudici professionisti è stata largamente contraria alla effettuazione di tali trasmissioni e tale contrarietà è venuta crescendo col passare degli anni (.86,5% nel ’94, 87,5% nel 2005). La ricerca si trova in Lanza, Processo penale e mass media. Ancora più alta la percentuale dei giudici popolari (89%).

Inoltre, secondo una buona metà del campione utilizzato (soprattutto di giudici laici, ma non mancavano i giudici togati), sarebbe opportuna, addirittura, la previsione di una sanzione penale in riferimento a siffatte modalità di comunicazione e trasmissione e, in ogni caso,  la stragrande maggioranza degli intervistati ha invocato la necessità di una regolamentatazione normativa del fenomeno.

Tale indagine statistica è stata effettuata una prima volta nel 1994 all’indomani di “mani pulite” ed è stata ripetuta nel 2005, ed anche in questo caso i risultati non sono stati dissimili. Evidente, allora, come le risposte del campione intervistato, contrarie all’effettuazione di simili programmi mentre il processo in corso o sta per iniziare, dimostrino il implicitamente che tali programmi esercitano una certa influenza, se non altro in termini di fastidiosa interferenza, sui protagonisti del processo -giudici compresi-; se così non fosse non verrebbe manifestata tale contrarietà ma indifferenza se non addirittura compiacimento per vedersi comunque in qualche misura al centro di un programma televisivo e dell’attenzione mediatica dell’intero Paese.

Scrive ancora Vittorio Manes in Giustizia mediatica, già citato: “Nel canovaccio mediatico, poi, alcune parti vengono rese protagoniste, altre miniaturizzate, tutte comunque deformate rispetto alla sagoma tradizionale. Più in generale, struttura e funzioni del processo, nell’informazione -o nella meta-narrazione- che ne danno i media, sono diversi, e questa narrazione tende a propagare i suoi effetti oltre il circuito mediatico, intersecando la giustizia reale…  Se… la giustizia narrata è percepita modifica la giustizia reale, anche la singola, concreta vicenda processuale investita dall’attenzione mediatica ne risulterà, di regola, profondamente modificata nella stessa struttura di fondo”.

È una preoccupazione legittima, anche se personalmente, avendo presieduto la Corte d’Assise di Lecce per quasi otto anni, non credo che la decisione sia alla fine frutto della mediatizzazione del processo, dal momento che la statuizione finale costituisce pur sempre il frutto dell’analisi approfondita delle carte processuali.

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Il rischio per l’indipendenza psicologica del giudicante

Tuttavia esiste, a mio modo di vedere, il rischio, da un lato, che sia messa a repentaglio l’indipendenza psicologica del giudicante, dall’altro che un’attenzione sproporzionata determini una eccessiva personalizzazione delle indagini, col rischio che il magistrato (solitamente il P.M.) sia tentato dal protagonismo giudiziario (che è sempre dietro l’angolo), o esposto a rischi personali, anche per la propria incolumità fisica.

Scrive Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore, giudice a latere nella Corte d’Assise di Roma, che si occupò dell’omicidio di Marta Russo: “Inizia l’atteso processo. L’aula è gremita di gente. Abbondano i giornalisti. Le luci dei riflettori sono accecanti. Nel backstage si aggirano due noti parlamentari. Affermano di essersi scomodati per vigilare affinché il dibattimento si svolga nel rispetto delle garanzie. A quando gli osservatori dell’Onu? Dopo una breve discussione, autorizziamo le riprese televisive. In camera di consiglio un giurato popolare mi mostra Il Messaggero.

Un anonimo pezzo di colore informa che tutti, accusatori, difensori, persino giudici hanno in tasca la loro parziale verità. Dunque, stiamo per accedere a un rito inutile perché Il Messaggero ha stabilito che la verità non si saprà. ‘Ma allora è già tutto deciso?’, mormora infatti un giurato popolare. Sconfortato mi stringo nelle spalle”.

E poi ancora: “Un video con le riprese dell’interrogatorio di una cosiddetta ‘superteste’ viene distribuito alle parti. Un’ora dopo, alcuni stralci della registrazione vengono mostrati in televisione. Chiunque ne sia il responsabile, considero riprovevole la consegna ai giornalisti di un atto processuale. Oltretutto in tempi così rapidi. Un carissimo amico, prima giudice, ora avvocato, si stringe nelle spalle: “L’avrei fatto anch’io -confessa- lo spettacolo è ormai parte integrante della giustizia e poi la visione poteva giovare alla difesa”. “Ancora una volta ogni mezzo è lecito” (e qui ritornano le affermazioni di Garapon).

Poi De Cataldo conclude: il processo è finito. La sentenza è criticatissima… la sera, i nostri imputati sono ospiti dello special di Bruno Vespa”.

Va da sé che porre in evidenza siffatte criticità non significa voler eliminare la cronaca giudiziaria. C’è un motto che mi pare particolarmente significativo: “la democrazia muore nelle tenebre. È il motto di uno dei più importanti giornali del mondo che si è sempre distinto nel giornalismo di inchiesta senza guardare in faccia a nessuno, il Washington Post.  La democrazia muore nelle tenebre è come dire: per non far morire la democrazia occorre far luce, aumentare quanto più è possibile il livello di trasparenza.

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Un conto è la cronaca giudiziaria un altro conto è la mediatizzazione del processo

Infatti, pur con tutti questi problemi, il giornalismo resta ancora il miglior sistema possibile di controllo del potere politico e non solo, non potendo tutto condursi all’azione investigativa della magistratura, rispetto alla quale, come è noto, da diversi anni a questa parte il potere politico ha approvato, e continua a farlo purtroppo, a tirare le redini non riuscendovi-o riuscendovi solo in parte grazie allo statuto di autonomia e indipendenza che hanno i magistrati e che è garantito dalla Costituzione. Ma un conto è la cronaca giudiziaria altro e la mediatizzazione del processo.

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Alcune considerazioni conclusive

La qualità di una democrazia dipende anche dalla qualità di opinioni, quindi dalla conoscenza, dalla trasparenza e in definitiva dalla comunicazione.

Manes invoca il riconoscimento “del rischio economico e reputazionale dell’informazione lesiva” propugnando nell’ordine: una maggiore attenzione della giustizia civile in materia di risarcimento non solo economico; interventi più pressanti e pregnanti delle autorità competenti se del caso con provvedimenti dii una immediata pubblicazione riparatoria verso la vittima da parte dell’editore comunque la maggiore protezione dei diritti “travolti dal processo mediatico”.

Credo siano richieste ragionevoli

La giustizia è certamente soggetta al controllo sociale, contrappeso all’indipendenza e autonomia della magistratura. I processi pertanto debbono essere pubblici e pubbliche le prove del reato (dall’inizio alla fine di questa fase, ammoniva Cesare Beccaria, perché il segreto è “il più forte scudo della tirannia”). La pubblicità del processo al pari della motivazione delle sentenze riveste l’importantissima funzione di garantire il controllo dell’opinione pubblica sull’esercizio della giurisdizione, ma una cosa è la pubblicità immediata, cioè quella del processo, altra cosa è quella “mediata”, ossia quella che si svolge appunto attraverso i media, soprattutto tv e Internet, mezzi caratterizzati da una “incontrollabile diffusività”.

L’espressione è mutuata dall’ordinanza con cui la Corte d’Assise di Perugia ha vietato la trasmissione attraverso Internet di atti processuali. Tali mezzi di comunicazione di massa non vanno banditi ma quantomeno vanno “maneggiati con cautela”.

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Osservare la delibera dell’AGCOM del 2008 finora “lettera morta”

Per contenere entro limiti fisiologici la pervasività di certe rappresentazioni mediatiche del processo, molto utile tornerebbe l’osservanza della delibera dell’Agcom (Autorità per le comunicazioni) del 31 gennaio del 2008 intitolata atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari”. In essa si specifica anzitutto che, rispetto a procedimenti giudiziari in corso, il confronto sia obbligatorio fra le opposte tesi (il che esclude che vi possano essere per così dire scelte di campo a favore di una parte o dell’altra) .

L’esatto contrario di ciò che accade ora con alcuni imputati che, dentro comodi salotti televisivi offrono la loro “verità” senza contraddittorio alcuno.

Nella delibera vengono poi evidenziate tutte le criticità che caratterizzano la rappresentazione mediatica dei processi (dalla creazione di un foro mediatico alternativo a quello giudiziario, all’effetto “gogna mediatica” in taluni programmi, ben lontani dal rispetto dei diritti e della dignità delle persone coinvolte nel processo, al rischio di influenzare o comunque interferire nel sereno svolgimento del dibattito processuale e così via). Queste criticità -suggerisce l’Agcom- vanno a tutti i costi evitate. Ma tale delibera -spiace doverlo rilevare- è rimasta in tutto e per tutto lettera morta dal momento che la effettività di queste regole è rimasta vicina allo zero (come constatiamo giornalmente stando davanti alla tv).

Ultima considerazione: i magistrati debbono astenersi dal partecipare al circo della giustizia spettacolo e imparare, piuttosto, a comunicare (come raccomandato anche dalla scuola della magistratura, che ha preso a organizzare veri e propri corsi di formazione). La giustizia è istituzione fondamentale per la democrazia e, in tempi in cui l’informazione corre veloce sulla stampa e ancor più sui social, saper comunicare è ormai imprescindibile.

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Sia più chiaro il linguaggio dei provvedimenti giudiziari

Purtroppo la comunicazione, soprattutto quella dei provvedimenti giudiziari, avviene oggi con linguaggio non solo tecnico (il che è naturale), ma il più delle volte oscuro (sciarade per iniziati, lo definiva Montanelli). Dunque, meno protagonismo, meno autoreferenzialità e comunicazione più consapevole e chiara. Bonaventura da Bagnoregio affermava: “ex silentio nutritur iustitia”. Un concetto che molti sostengono convintamente rapportandolo al cosiddetto “protagonismo” dei magistrati. “I giudici devono parlare solo con le sentenze”, si sente dire e in tal senso sembrano andare alcune recenti disposizioni legislative. Io ritengo invece che comunicare la giustizia, renderla percepibile o più percepibile ai cittadini sia un dovere di ogni magistrato, ancor più se dirigente di un ufficio giudiziario; non perché essa diventi strumento di consenso popolare ma perché è necessario spiegare con precisione -e con linguaggio chiaro- le ragioni della decisione e dell’attività giurisdizionale, consentire quindi all’opinione pubblica di esercitare meglio con cognizione di causa la sua funzione di controllo democratico anche sul potere giudiziario.

 

Roberto TanisiPresidente del tribunale di Lecce, già presidente della Corte d’Assise di Lecce e della Corte d’appello

 

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