Femminicidio e violenza. Le riforme bipartisan sono davvero utili?

Dietro l’apparente unanimità bipartisan sulle iniziative legislative su femminicidio e violenza sessuale, scritte in modo impreciso e di dubbia efficacia, c’è una politica che cerca il consenso con nuove fattispecie penali che incontrano il favore dell’opinione pubblica ma che nei fatti non arginano i fenomeni criminali che intendono contrastare. L’analisi di Giuseppe Pavich, avvocato penalista cassazionista e professore di Diritto penale

Sappiamo bene che il nostro panorama politico attuale si caratterizza per una forte litigiosità, per il frequente ricorso a toni scomposti, per l’uso di espressioni spesso molto vivaci e colorite nei botta e risposta tra esponenti degli opposti schieramenti. È il frutto (forse un po’ avvelenato) di una spiccata polarizzazione dei rapporti fra le forze politiche.

Eppure, nelle ultime settimane, si è assistito a una ritrovata unanimità che ha consentito accordi bipartisan in almeno un paio di occasioni.

Mi riferisco a due iniziative legislative a sfondo penale: ossia la recentissima introduzione del delitto di femminicidio, punito con l’ergastolo; e la prevista modifica dell’art. 609 bis del codice penale, in base alla quale si ha violenza sessuale tutte le volte che la vittima non abbia espresso un consenso “libero e attuale” al rapporto.

Ci mancherebbe, l’omicidio commesso ai danni di una donna è un crimine odioso, purtroppo tutt’altro che infrequente. E la violenza sessuale è, a sua volta, un reato di particolare gravità. Per cui non stupisce che, una volta tanto, siano tutti d’accordo nel contrastare le più esecrabili forme di violenza di genere.

Ma siamo sicuri che si tratti solo di unanime riprovazione verso questi fenomeni criminosi?

Prendiamo il femminicidio. Il testo dell’art. 577 bis del codice penale, approvato negli scorsi giorni, prevede che sia punito con l’ergastolo chiunque cagioni la morte di una donna «quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali».

A fronte del consenso bipartisan a questa formulazione, molti studiosi e giuristi si sono espressi in termini pesantemente critici. Le obiezioni più convincenti riguardano, da un lato, la formulazione della norma, che appare assai confusa e imprecisa nella descrizione degli elementi costitutivi del reato di femminicidio; dall’altro, la concreta utilità dissuasiva della fattispecie. Infatti, leggendo le aggravanti previste dagli articoli 576 e 577 del codice penale, scopriamo che l’omicidio volontario già precedentemente vigente (quello di cui all’articolo 575 del codice penale) è anch’esso punito con l’ergastolo qualora il reato venga commesso in situazioni analoghe a quelle descritte nel delitto di femminicidio. Peraltro, va ricordato che anche la previsione dell’ergastolo per il femminicidio non è assoluta, essendo possibili consistenti diminuzioni della pena nel caso in cui concorrano una o più circostanze attenuanti.

In definitiva, una legge scritta male, di dubbia utilità e anche di dubbia costituzionalità (molti studiosi e operatori del diritto ritengono che la norma in corso di approvazione contrasti con alcuni principi affermati dalla Carta fondamentale).

Anche il nuovo testo del delitto di violenza sessuale all’esame delle Camere nasce da un’intesa bipartisan tra la premier Giorgia Meloni e la segretaria dem Elli Schlein (anche se nei giorni scorsi l’iter parlamentare ha subito una battuta d’arresto su impulso di uno dei partiti di maggioranza).

Anche in questo caso, la modifica legislativa presta il fianco a qualche critica.

Chi scrive è ben consapevole che il principio del “consenso libero e attuale”, in sé sacrosanto, è stato di recente affermato solennemente dal Codice penale francese, è vigente in altri ordinamenti europei ed è inoltre riconosciuto dal Parlamento europeo.

Tuttavia, anche qui qualcosa non torna.

Il problema non riguarda l’ipotizzata inversione dell’onere della prova, che imporrebbe all’imputato di provare che il consenso vi sarebbe stato (non è esattamente così, almeno sul piano generale); semmai la vera, grande difficoltà probatoria in simili vicende – oggi come ieri – consiste nel fatto che i protagonisti della vicenda (presunto autore e presunta vittima del reato) sono, di regola, gli unici a poterne riferire per conoscenza diretta.

Piuttosto, se la si osserva dal punto di vista del diritto vivente, la riforma non fa che confermare quanto i giudici di legittimità affermano pacificamente da tempo: e cioè che è violenza sessuale anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa (Cass. 3^, n. 22127 del 2016); che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità (Cass. 3^, n. 15010 del 2018); che ricade sull’imputato l’onere di provare che egli ha agito sull’erroneo presupposto dell’esistenza del consenso della vittima (Cass. 3^, n. 52835 del 2018); e, addirittura, che nei reati contro la libertà sessuale, il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria (Cass. 3^, n. 19599 del 2023). E si potrebbe continuare.

Del resto, la vigente formulazione della norma abbraccia un ampio ventaglio di ipotesi, alla base delle quali, perché l’atto sessuale sia lecito, vi è, comunque, sempre la necessità di un consenso libero e attuale.

E allora ci si deve chiedere se la sostanziale unanimità tra le forze politiche nel sostenere queste novità normative non nasca semplicemente dalla necessità di non lasciare alla controparte politica il monopolio di iniziative legislative della cui utilità è lecito dubitare, ma che vengono presentate a gran voce come risolutive e trovano perciò un diffuso sostegno nell’opinione pubblica.

Nessuno, in sede politica, si prende la briga di riflettere su un dato tanto evidente, quanto trascurato: sebbene ci si ostini a combattere gravi fenomeni criminosi introducendo aggravamenti di pena o coniando nuovi reati, quegli stessi fenomeni criminosi non accennano a diminuire ed anzi, in alcuni casi, continuano imperterriti ad aumentare di frequenza.

A riprova che il pan-penalismo potrà magari creare consenso, ma non risolve i problemi.

Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide