Esistono tante estreme destre. In Europa dal Secondo Dopoguerra esiste una linea di continuità con il passato che ha portato alla nascita di fenomeni come il fascismo ed il nazismo. Oggi molti partiti – sebbene siano mutati nel tempo – sono ancora portatori di valori ultraconservatori e devono rapportarsi con delle aree extraparlamentari, talvolta culla di sensibilità anti-sistema, contigue alle loro basi di militanza delle quali fanno parte gruppi pericolosi.
Molti di questi movimenti hanno recentemente ottenuto più voce in capitolo prima nei propri Paesi e poi nel Parlamento europeo con le recenti elezioni dell’8 e del 9 giugno. Il professor Domenico Guzzo, docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Bologna, spiega nel corso di questa intervista il percorso storico dei movimenti di estrema destra europei.
Come nasce il concetto di estrema destra in Europa? Sembra difficile che dopo la Seconda Guerra Mondiale in certi Paesi siano nati movimenti estremisti…
Esiste una linea di continuità, la culla delle estreme destre europee sono principalmente i Paesi sconfitti della Seconda Guerra Mondiale. L’Italia, dove è nato il fascismo, la Germania ex nazista e poi alcuni Paesi per quanto si siano trovati dalla parte dei vincitori come ad esempio la Francia.
Quest’ultima è un Paese culla dell’estrema destra per un’antica tradizione che aveva addentellati antisemiti per un verso e un certo carattere reazionario cattolico dall’altro. Quindi diciamo che in Europa c’è sicuramente questo triangolo fra l’Italia, la Germania e la Francia che hanno rappresentato un po’ il perimetro all’interno del quale è venuta fuori una mobilitazione di estrema destra che è stata attiva sin dal primo giorno successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quindi questi sono sicuramente i luoghi principali.
Esistono poi altre correnti di estrema destra in Europa?
Non è un fenomeno limitato solo a tre Paesi in effetti. Ci sono tutta una serie di correnti che sono molto forti nel mondo balcanico e sono emerse in maniera prepotente soprattutto dopo la dissoluzione della Jugoslavia negli anni ‘90. C’è una corrente di estrema destra piuttosto forte in Grecia. Infine c’è una tradizione ancora più orientale, con la quale gli europei e occidentali hanno dei rapporti un po’ contraddittori: l’estrema destra russa.
Com’è stato possibile che un Paese come la Germania uscito da una fase storica concitata ha visto l’emergere di una nuova estrema destra che si rifaceva agli ideali dei nazionalsocialisti?
Più che di nascita dovremmo parlare di sopravvivenza. Queste realtà sono fisicamente esistite e sono sopravvissute alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In Germania non hanno trovato spazio perché la denazificazione e i muri che si erano alzati verso un ritorno in quella direzione sono stati altissimi e fortissimi.
Ciò non ha significato però la scomparsa di uno spazio seppur ridottissimo all’interno del quale questi movimenti hanno potuto continuare ad esistere. Si sono alimentati della loro sconfitta. È infatti l’essere minoritari un tema fondamentale: è un tema molto forte nell’estrema destra. Si sa di stare dalla parte di coloro che sono stati sconfitti dalla storia e quindi ci si compatta in una trincea minoritaria facendosi forza.
Anche in Germania c’è stato uno spazio, seppur piccolissimo, all’interno del quale l’estrema destra è sopravvissuta alimentandosi del mito del Terzo Reich caduto, dell’idea di essere pochi eletti che reggono, malgrado l’imporsi del liberalismo, della democrazia e di tutta una serie di altri elementi. Malgrado il sistema tedesco sia stato molto abile nel mantenere l’estrema destra fuori dai centri di potere e di governo non ha potuto eliminare ogni spazio sociale che poteva sfruttare.
Cosa è successo dopo la Guerra Fredda?
In certi ambiti sociali l’estrema destra è sopravvissuta in modo ultra minoritario, almeno durante la Guerra Fredda. Quando poi è venuta a meno, gli spazi si sono ampliati perché a quel punto sono cambiati i riferimenti internazionali, sono cambiate le categorie del nemico.
Sono sopraggiunte molte crisi, anche economiche e sociali, che hanno ridato fiato a queste realtà molto minoritarie, che a quel punto, a partire dagli anni 90 e dai primi anni 2000, hanno trovato maggior spazio per farsi vedere. Hanno potuto appoggiarsi ad esempio al cambiamento multiculturale della società, all’arrivo di nuove etnie, di nuove popolazioni e con questo hanno potuto rilanciare alcuni discorsi come quelli della ‘fortezza Europa’, della civiltà bianca in pericolo e così via. Il sistema tedesco, in breve, è riuscito a tenere lontana l’ultradestra ma non ha potuto impedire che esistesse.
E per quanto riguarda la Francia? Rassemblement National è un partito che oggi è molto forte nonostante il forte sentimento antifascista e il fatto che il Front National fosse un soggetto minoritario…
La situazione è molto più legata alla realtà specifica francese e più precisamente a come la Francia ha vissuto e subito la sua trasformazione da vecchio impero coloniale a una medio-grande Potenza del tempo contemporaneo ma non più con gli attributi dell’impero.
Per comprendere le origini di FN – e dunque di RN – bisogna partire da lontano, almeno dai tempi della guerra d’Algeria e della nascita della Quinta Repubblica. In Francia c’è un’attenzione fortissima a partire dagli anni 50-inizio 60 del secolo scorso- relativa appunto allo statuto che poteva ancora mantenere dentro il consesso internazionale. Il rapporto con le colonie è un aspetto fondamentale di questa rielaborazione identitaria.
Fino agli anni ‘90 la costruzione che De Gaulle aveva messo in piedi per costruire la Quinta Repubblica ha retto, cioè un sistema semipresidenziale a doppio turno con una serie di attributi che si basavano molto su un centrodestra come quella gollista e neogollista che era fieramente antifascista. De Gaulle aveva deciso di affrontare la trasformazione della Francia da impero a potenza, quindi non più coloniale. Questa costruzione ha potuto funzionare fintanto che è esistita un’area larga, la cosiddetta Francafrique, cioè fintanto che le ex colonie hanno continuato comunque a orbitare attorno alla Francia, anche se in maniera sempre più indiretta.
Questo ha consentito alla Francia negli anni ‘70, ‘80 e ancora ‘90 di avere una rete larga per poter allargare la propria influenza culturale, economica e geopolitica. A partire dagli anni ‘90 però questo sistema si è infranto. La Francafrique ha cominciato ad avere tante crepe e il neogollismo non è più riuscito a essere il pilastro portante della Quinta Repubblica.
Quando tutto questo sistema ha cominciato ad andare in frantumi, è emersa di nuovo la questione postcoloniale, multiculturale e dell’integrazione, così come si era già vista negli anni della guerra d’Algeria, in maniera molto problematica. In questo schema il Front national ha cominciato a trovare spazi inediti per l’appunto, perché poteva sventolare la bandiera ‘della Francia autentica’ ovvero quella bianca. Gli esponenti del partito parlavano dell’arrivo di un numero eccessivo di stranieri, della trasformazione anche morale, religiosa, culturale del Paese. Quindi il tutto è partito da lì.
Cos’altro ha aiutato il FN nella sua crescita?
C’è stata una leva molto importante: la crisi economico-sociale interna alla Francia, che si è avuta alla metà degli anni ‘90 e che ha visto le forze della sinistra storica – il Partito Socialista in particolar modo ma anche il più piccolo Partito Comunista francese e i suoi successori – non riuscire più a essere dei riconosciuti rappresentanti della classe operaia francese. Si tratta di una classe operaia molto particolare, molto basata su un certo tipo di industria che è andata in trasformazione.
Questa classe operaia che viveva spesso in quartieri che già erano difficili, che diventavano di giorno in giorno sempre più complessi, anche per via di un’integrazione che non funzionava a dovere, ha cominciato a guardare in altre direzioni e ha cominciato a trovare spesso nel Front Nazionale un voto di protesta o comunque un modo per mandare un messaggio al sistema.
Fra gli anni ‘90 e i primi anni 2000 parlava di gaucho-lepeniste, cioè un particolarissimo fenomeno elettorale che faceva sì che almeno al primo turno delle elezioni politiche gran parte della classe operaia, che una volta votava a sinistra, al primo turno votava per protesta il partito di Le Pen. Poi magari ‘aggiustava’ il voto al secondo turno. Dopo gli anni ’10 del ventunesimo secolo i partiti sono entrati in una crisi interna. Basti pensare a Macron che non è espressione di nessuno dei partiti storici.
E allora in questa ricomposizione generale, nella quale ci sono stati anche attentati di matrice islamista, l’estrema destra ha trovato ulteriori spazi di propaganda occidentalista.
La svolta di estrema destra nei Balcani costituisce un pericolo per l’Unione Europea stessa?
Dal mio punto di vista, che è quello di uno storico, stare dentro l’Unione Europea per i Paesi dell’est è stato un fattore di freno rispetto all’ascesa dell’estrema destra. Essere membri Ue ha imposto dei vincoli, ha tenuto aperte delle porte, ha agitato delle minacce di infrazione che fino ad un certo punto almeno hanno funzionato.
Se dovessimo guardare una traiettoria storica che guarda ancora prima, quindi ai tempi della Guerra Fredda e che si allunga poi oltre essa e guarda anche agli anni dell’espansione dell’Unione Europea a Est, in realtà questo è un una sua spontaneità. Aver visto un passaggio dal vecchio sistema comunista a sistemi simili occidentali, pluripartitici e molto spesso liberisti, ci ha illuso che probabilmente questi Paesi si fossero instradati verso una solida democrazia.
In realtà le rivoluzioni di velluto hanno mascherato processi di transizione non sempre rivelatisi solidi quanto meno per garantire una sostanziale democrazia.
Alcuni Paesi dell’ex blocco sovietico sono riusciti a diventare democrazie funzionanti ma altri meno. L’illusione della rivoluzione di velluto e poi l’integrazione dell’Unione Europea ci hanno forse impedito di sostenere, per quello che era possibile, questi processi di transizione.
In quei Paesi si è stati per decenni obbligati a seguire un certo modello – senza entrare nel merito – di “socialismo reale”, quindi di estrema sinistra. È stato naturale per certi versi il successivo percorso verso la destra. Uno dei fattori principali del successo delle destre – adesso non per forza arrivando sempre all’estrema destra – è quello di apparire come degli attori capaci di riportare l’ordine. L’estrema destra ha giocato molto sull’assenza della democrazia ponendosi come unica soluzione radicale a Stati che non funzionavano bene.
La crisi economica del 2008 ha fomentato le nuove destre?
Moltissimo. Un altro fattore di forza dei movimenti di estrema destra è quello di sorgere tendenzialmente o di avere maggiore visibilità e appetibilità durante e all’indomani delle grandi crisi economiche e sociali. Le estreme destre tendono ad avere maggiore forza e maggiore visibilità allorquando i grandi programmi di riforma sociale – quindi di un riformismo progressista, potremmo definirlo di sinistra o di centro-sinistra – falliscono.
L’Italia ne è un esempio, nel senso che da noi le estreme destre hanno trovato un surplus di forza, ad esempio, dopo l’incepparsi del riformismo dei governi di centrosinistra dei primi anni Sessanta. Sono poi tornate molto forti nei primi anni Settanta dopo l’esaurirsi dell’esperienza del Sessantotto e dell’Autunno Caldo.
Questa è una regola generale che vale dappertutto perché l’estrema destra rappresenta in qualche modo quel principio autoritario-gerarchico che la complessità del mondo può essere risolta da un atto di imperio ricorrendo a un uomo forte che impone un presunto ordine naturale al quale ci si deve rifare per tornare all’armonia, alla salvezza dello Stato e della nazione.
Quindi la crisi del 2008 è stato un fenomeno importantissimo in questo senso, perché è stato il momento nel quale la globalizzazione o altri processi economici e sociali sono sembrati andare in crisi. Anche il ceto medio è stato colpito da questa crisi diventando sempre più povero.
Questo ha servito un assist alle estreme destre che hanno sostenuto che il sistema democratico occidentale non funziona perché alla fine va in crisi e non garantisce benessere mettendo a repentaglio tradizione e cultura minacciate dal multiculturalismo e dal relativismo.
La crisi del 2008 ha giocato un ruolo importante anche perché di fronte a queste grandi crisi sistemiche di portata globale è facilissimo che si generino dei processi, spinti soprattutto dal web, di carattere ultra complottista, che vanno alla ricerca di un “grande burattinaio”
In chi viene identificato questo ‘grande burattinaio’?
Nelle categorie del nemico storico. Spesso in maniera antisemita, andando a colpire gli ebrei, ma anche nei confronti di altre categorie. Si va a colpire sempre il diverso e questo permette di puntare il dito verso un presunto colpevole che provoca la crisi per arricchire la propria categoria attraverso l’impoverimento degli europei.
In genere quali sono i rapporti tra i movimenti di estrema destra e i piccoli gruppi al loro interno?
Immaginiamo una base da intendersi come un’area sociale piuttosto vasta che ha punte estreme dove ci sono gli elementi più radicali. Man mano che ci si allontana da questi estremi c’è uno spazio ancora di ultradestra nel quale a un certo punto c’è un confine. Questo confine è dato dai ‘confini del partito’ che ha almeno ufficialmente accettano il gioco democratico. Questo significa che il partito entra nella dinamica democratica per partecipare alle elezioni: a volte si può ritrovare anche al governo, altre volte sta solo all’opposizione.
Non per questo la struttura di un partito di destra o di estrema destra cessa di dialogare Gli ambiti contigui alla sua base. Esiste un rapporto tra una parte che accetta la democrazia ma al contempo nelle sezioni e nelle realtà territoriali o digitali più bassi mantiene rapporti con l’area ‘extraparlamentare’.
Il dialogo con la ‘base’ resta vivo?
C’è uno scambio continuo fra le basi del partito e della sua parte extraparlamentare e fintanto che questi partiti di destra e di estrema destra sono all’opposizione, non ci sono grandi problemi. A quel punto il partito pesa poco e cerca di farsi forza, di compattarsi con questa area extraparlamentare per reggere al meglio possibile.
I veri problemi vengono fuori quando questi partiti assumono posizioni di governo e sono costretti a dare un’immagine più presentabile. In quel caso si è costretti ad allontanare la parte estrema.
Lo scambio resta, sicuramente non c’è totale accondiscenza tra base e partito ma molti temi ideali sono comuni. La differenza sta nella posizione di potere e visibilità che i partiti hanno in quel momento. Il problema viene fuori quando questi partiti assumono posizioni di governo dovendo tenere conto di quello che succede al proprio interno.
Francesco Fatone – Giornalista