Per anni abbiamo vissuto in un sogno, un sogno chiamato American dream. “Il sogno di una terra in cui la vita dovrebbe essere migliore, più prospera e più ricca per tutti, con opportunità per ciascuno secondo le proprie capacità o i risultati raggiunti” lo definiva il premio Pulitzer James Truslow Adams in The Epic of America (1931).
La promessa di un’integerrima terra di giustizia, che ha sedotto generazioni di italiani e che oggi viene ancora presa a modello come utopico “altrove”, democrazia perfetta dove le cose vanno sempre e comunque meglio che nel nostro Bel Paese. È questo mito che Luca Mencacci, docente di Scienza Politica e Analisi delle Politiche Pubbliche presso l’Università Guglielmo Marconi, mette in discussione in Dirty politics. Diffamazione e disinformazione nelle campagne presidenziali americane (2024).
Un libro pieno di aneddoti sulle elezioni presidenziali e il meccanismo elettorale americano, nato, per ammissione dell’autore, da una fascinazione per la “diabolica figura” di Donald Trump.
“Solo una volta si videro elezioni presidenziali americane rispettabili e dignitose. La prima, quando i Padri fondatori si trovarono ad acclamare vincitore George Washington”.
Buy my president
Sin dagli albori le elezioni presidenziali americane sono state teatro di scandali e scorrettezze, ma è con il 1956 che le strategie di comunicazione si trasformano in quelle che conosciamo oggi e il presidente diventa a tutti gli effetti un prodotto da vendere. È l’inizio di campagne elettorali sempre più sensazionalistiche, basate sugli slogan. Più si grida alla sovranità, più si subisce l’inevitabile influenza dei paesi che trarrebbero vantaggio dall’elezione del candidato che asseconda i loro interessi.
Gabriele Natalizia, professore di relazioni internazionali alla Sapienza, ha ricordato a questo proposito i sospetti sull’influenza russa nell’elezione di Barack Obama nel 2008 e di Donald Trump nel 2016. Nelle elezioni odierne forte è stato l’interesse iraniano a sostenere Harris, che fino a gennaio 2024 parlava di un rilancio dell’JCPOA, l’accordo sul nucleare civile con l’Iran, sospeso da Trump nel 2018.
Una storia di colpi bassi
Se le scorrettezze delle campagne elettorali contemporanee ormai non ci riservano più grandi sorprese, assuefatti come siamo a sconcezze e turpiloquio, è sempre un po’ sgradevole ricordare che di fatto i bei tempi in cui “tutto andava meglio” forse non sono mai esistiti. Persino i tanto osannati “Padri della Patria” erano capaci di commettere bassezze tali da far impallidire la spregiudicata campagna elettorale di Trump.
È il caso, racconta Mencacci, delle burrascose elezioni presidenziali del 1800, in cui Thomas Jefferson assunse un commediografo scozzese per calunniare sui giornali l’avversario, facendo descrivere John Adams come un “ermafrodito che non possiede le caratteristiche di bellezza delle donne, né quelle di virilità degli uomini”. Nel 1824, nella patria della libertà e democrazia, Andrew Jackson, dopo aver ottenuto la maggioranza relativa dei voti popolari, si vide soffiare l’incarico da John Quincy Adams, scelto dal Congresso.
Esiste persino un precedente di candidato detenuto: Eugene Victor Debs, che, condannato a 10 anni di prigione, nel 1920 decise ugualmente di prendere parte alle elezioni presidenziali, prendendo il 3,4%.
La rivoluzione dei media
Fondamentale per l’evoluzione delle campagne elettorali fu il progresso dei mezzi di comunicazione: all’inizio gli scontri avvenivano sui pamphlet, poi si passò ai giornali, poi alla radio, al cinema, alla televisione e, infine, ai social. Quando nel 1934 Upton Sinclair si candidò alle elezioni per designare il governatore della California, furono i proprietari degli Studios di Hollywood ad osteggiarlo. Preoccupati dal suo progetto di introdurre una patrimoniale di 1 o 2 punti percentuali sul loro reddito, iniziarono a produrre cinegiornali falsi da trasmettere al cinema tra il primo e il secondo tempo delle proiezioni.
Il loro impatto fu tale che Sinclair passò in un mese da un vantaggio di 10 punti percentuali a un distacco di 7 rispetto all’avversario.
Quid est veritas?
Chiedeva Ponzio Pilato nel Vangelo secondo Giovanni (18:38). Oggi, nell’epoca della perfetta falsificazione, distinguere le fake news è diventato sempre più difficile. Eppure, avverte Gabriele Natalizia, la disinformazione è connaturata al potere ed è l’essenza della politica. La verità non è mai una sola, ma è frammentata, parziale, e in questo risiede il significato profondo della democrazia.
Claudio Siniscalchi, giornalista e scrittore, ha parlato del ruolo complesso e “sempre più infido” del giornalismo contemporaneo. In un momento in cui i giornali vengono sopraffatti dall’abbondanza e dalla velocità delle informazioni sui social, è sempre più facile che le notizie cadano preda di interessi personali e meccanismi di sopravvivenza. I fatti sono costantemente occultati dalle interpretazioni soggettive e semplificatorie, in cui la dinamica buono-cattivo fomenta gli animi e vende bene. Per comprendere la verità, ha avvertito, talvolta bisogna “seguire il denaro come investigatori”.
È inutile illudersi che altrove sia meglio che da noi: l’America sta vivendo come l’Europa la fine della democrazia rappresentativa. Il potere è in mano alle élite ed è sempre più condizionato da finanza e mass media. In questo senso, continua Siniscalchi, Dirty politics è un libro “demistificatorio”, perché abbatte il mito americano e ci mostra un paese preda della stessa crisi dell’Europa.
Su un aspetto vale però la pena di riflettere: la coerenza e la certezza della legge elettorale degli Usa, uguale da 220 anni, fornisce ai cittadini americani la consapevolezza di un sistema superiore a tutti i protagonisti, consolidandone il sentimento democratico. Un valore che la legge elettorale italiana -mutevole e incerta – non può garantire.
Nessuna democrazia è perfetta, ha affermato Mencacci, e bisogna rifuggire l’“eccesso di idealismo che alberga in tanta parte della critica politica”, perché far emergere e prendere consapevolezza dei difetti del sistema democratico è più proficuo che puntare il dito e sottolineare lo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.