“Ma tu sai – mi dice Mario Nanni, storico giornalista parlamentare dell’ANSA nonché mio docente al corso propedeutico all’esame di stato per giornalisti professionisti, e da allora grande amico – che il 90% degli italiani pronuncia Frìuli e non Friùli? Perché non ci racconti di più di questa terra, di questo estremo nordest, dove si parla friulano, tanto bello a sentirsi, per il forestiero, quanto impossibile a capirsi?
Come dire di no?
Intanto, Friuli deriva da “Forum Julii” nome con cui Cesare indica, nell’attuale Cividale, un castrum romano, da lui promosso a “Forum” nel 40 a.c., di strategica importanza proprio perché crocevia di terre e strade. Non distante, Aquileia, fondata quasi due secoli prima, oggi in terra ferma ma allora porto romano cui giunge la “via dell’ambra” proveniente dall’attuale Russia, poi sede patriarcale strettamente “figlia” di quella di Alessandria D’Egitto. Fin dall’antichità, del resto, quel Friuli che oggi è periferia dell’impero, è frutto di una storia di apertura al mondo come poche altre terre del nord.
Sul Friuli romano prima ed aquileiese poi, con le invasioni barbariche, arrivano ad un certo punto gli Unni di Attila, che distruggono Aquileia ma risparmiano Cividale, poi fulcro del regno longobardo. Nel 1077 Enrico IV, risalendo da Canossa a scomunica revocata, trova nel Patriarca di Aquileia Sigeardo l’unico a lasciarlo passare per andare a soffocare una rivolta di nobili nei territori dell’impero, e lo premia investendolo del titolo di principe dell’Impero.
La Patria del Friuli – così si chiama l’istituzione politico-religiosa che ne deriva – è talmente vasta da occupare, nel XIII secoIo, Il Veneto centro-orientale (ad eccezione di Venezia e della sua terraferma), l’Istria, la Carinzia, il Cadore, la Stiria, dominando su molti popoli e molte lingue, con contaminazioni ormai parte della cultura e della storia friulane.
Tramontato, a favore di quello veneziano, il potere del patriarcato, la Serenissima attinge a piene mani dalle ricchezze naturali friulane, e vi costituisce la sua classe dirigente locale, di derivazione o approvazione nobiliare (i “sorestants”, cioè coloro che dominano). Questo, fino al 1797 quando arriva un certo Napoleone che, proprio vicino a Codroipo, nella lussuosa Villa di campagna dell’ultimo doge, Manin, con il Trattato di Campoformido sancisce il passaggio del Friuli dalla Serenissima all’Impero Austroungarico. Neppure 70 anni dopo, nel 1866, il Friuli viene annesso al Regno d’Italia.
Ecco, caro Mario, in queste 30 righe ci sono molti dei motivi per cui noi friulani siamo sintesi di una storia che sa di passaggi di popoli e culture, idiomi e nazionalità. La lingua friulana, un latino fortemente contaminato da elementi celti e slavi, e la cucina, ne sono la prova lampante.
Neppure 30 anni dopo l’annessione al Regno d’Italia, i nostri trisnonni, messi a dura prova da terre all’epoca avare e molto parcellizzate, insufficienti a garantire la sussistenza delle loro famiglie, iniziano a sparpagliarsi nel mondo, forti di null’altro che del proprio mestiere, e della loro abitudine alla fatica.
I friulani si dirigono all’inizio soprattutto in America, prima quella del Sud e poi quella del Nord, cercano di far bella figura, e ci riescono eccome, facendosi apprezzare come gente “salda, onesta, lavoratrice”, che fa spesso carriera. Luigi Del Bianco, capomastro degli scalpellini che sul monte Rushmore, nel Sud Dakota, effigiano i quattro Presidenti, arrivava da Meduno, minuscolo paesino della pedemontana occidentale, e con lui intere generazioni di terrazzieri, carpentieri, muratori.
Ma anche l’Europa è destinazione friulana. Il pavimento in granito del Natural History Museum di Londra è frutto del lavoro di squadre di terrazzieri e mosaicisi della zona di Sequals: sì, proprio il paese di Carnera, dove i miei nonni sono “vicini di tomba”, come dico io, del grande campione.
Le donne sono apprezzate nelle case più ricche e blasonate: abituate come sono alla fatica ed alla povertà, si trovano generalmente molto a loro agio in case di lusso, dove il pane bianco arriva ogni giorno, e le condizioni di lavoro, per quanto spesso rasentino lo sfruttamento, sono comunque migliori delle vere e proprie forme di schiavitù della gleba lasciate volentieri lontane.
L’emigrazione friulana è storia lunga, e sicuramente non senza conseguenze, soprattutto per chi si dirige verso Francia, Germania, Inghilterra. I friulani partono, spesso con le loro donne, e rientrano, dopo essere stati a contatto diretto con i primi movimenti sindacali di stampo socialdemocratico, con le istanze delle suffragette, con le abitudini di genti generalmente più ricche, istruite ed urbanizzate.
È proprio per una diffusa tendenza a sciacquare i panni nella Senna o nel Tamigi, che il Friuli è storicamente terra di socialisti e socialdemocratici, figli a distanza delle prime trade union e dei primi sindacati (l’indimenticato parlamentare socialista Loris Fortuna, padre nobile dei diritti civili in Italia, fu friulanissimo di adozione anche se non di nascita). Movimenti basati sulla concretezza e non sull’ideologia: la politica del “bread and butter”, del pane-e-burro, dicevano gli inglesi.
Le dinamiche migratorie si intrecciano con il conflitto del 15-18 e con il successivo fascismo. Seguono anni bui, in cui manca anche la possibilità di andare all’estero.
La seconda guerra mondiale vede il Friuli mandare i suoi alpini in Russia ed I bersaglieri in Africa, e tanti partigiani poi a combattere contro i nazisti, sotto gli occhi dei Cosacchi, arrivati lì perché Hitler li ha illusi promettendo che quella terra sarebbe stata loro. Costa sangue, certo, ma rimane nella storia, la “Repubblica Partigiana della Carnia”, pagina di combattimenti e libertà, la più ampia zona libera del Nord Italia, sorta e stroncata nel giro di quei pochi mesi del 1944.
Termina anche la seconda guerra mondiale ma, nonostante il Piano Marshall, i Friulani continuano ad andare all’estero: lo sviluppo è lento, non ci sono possibilità lavorative per tutti, l’industrializzazione stenta anche se ormai si consolida dopo I ritardi dei decenni precedenti.
Il Friuli arranca e barcolla, ancora e più che mai, quando nel 1976 l’orcolat scuote le fondamenta della terra.
Mille morti, interi paesi devastati, fabbriche e scuole distrutte, il rischio dell’estinzione di un popolo condannato a riprendere in mano la valigia ed il meglio di sé, e questa volta per sempre.
Ma non va così.
La grande solidarietà nazionale ed internazionale, le risorse messe a disposizione del Governo insieme ad un grande Commissario Zamberletti, non solo creano le premesse per la fondazione della Protezione Civile Italiana ma – unitamente alla tempra dei friulani ed alla lungimiranza di chi dà la priorità alla ricostruzione delle aziende e delle fabbriche, su sollecitazione dello stesso arcivescovo Battisti – consente ad una terra di emigranti di diventare ricca e prospera come non mai.
Si dice del resto che il Friuli sia il miglior esempio di rinascita post-terremoto, rispetto alle altre tragedie sismiche che hanno scosso l’Italia, dal Belice all’Irpinia, fino all’Umbria e ad Amatrice. A neppure 20 anni dal sisma, accettando gli aiuti ma rigorosamente “fasint di bessoi”, la ricostruzione è un successo, ed addirittura volano di sviluppo.
Zone industriali ed artigianali che trainano un’economia che investe ed assume, un’Università nuova di zecca, oggi importante polo medico-scientifico, le chiese riscostruite, le case tirate su, più belle di prima, I centri di eccellenza ospedaliera che attraggono pazienti da tutta Italia.
Il Friuli ha così conosciuto un importante periodo di sviluppo, che si è però arenato con gli anni 90, quando l’Italia si è spiaggiata insieme alla prima Repubblica (e non aveva ancora visto le successive!).
Pur avendo in regione colossi come la Cimolai (suo il “sarcofago” di Chernobyl), le Officine Meccaniche Danieli con i loro laminatoi sparsi nel mondo, le Acciaierie Pittini, il distretto del Mobile del pordenonese, il re delle pizze Roncadin ed il suo “Bo Frost”, un comparto agro-alimentare di tutto rispetto, il Friuli vive con il freno a mano tirato ed è quasi la cenerentola del nordest.
Con tutto questo, gode di un tenore di vita inimmaginabile agli occhi dei nostri conterranei di 60 anni fa. Anche, forse, negli aspetti deteriori. Mons. Battisti, in tempi non sospetti, aveva già intravisto un pericolo ancor peggiore del terremoto, ed erano le macerie dello spirito del Friuli, a cominciare dal consumismo. Ahimè, vox clamantis in deserto: oggi la provincia di Udine detiene il triste primato di suolo destinato ai centri commerciali (il doppio rispetto alla media italiana), che hanno tolto terra all’agricoltura e anima ai friulani. E così si vedono tristi scene di famiglie che trascorrono il tempo libero spingendo inebetiti un carrello in uno di questi templi laici, tra neon e vetrine, smartphone e solitudine.
Eppure, al di fuori c’è un mondo: in 120 chilometri si scende dalle cime dello Zoncolan (ormai noto in tutto il mondo del ciclismo) fino alle spiagge di Grado: il Friuli è piccolo, è un concentrato di universo (parole di Ippolito Nievo). Terra di vini (Prosecco, Friulano, Cabernet), di frutta (si stanno anche recuperando le vecchie cultivar di mele della pedemontana), di formaggi (Montasio e non solo), e di cultura, ci ricordano i depliant della promozione turistica.
Di paesaggi alpini e di acque (anche se, caro Mario, son lontani i tempi in cui eravamo famosi per essere, scusa il termine, …”il pisciatoio d’Italia”).
Il Friuli è la terra del Tagliamento, unico fiume rimasto selvaggio in Europa, con il suo letto largo anche due chilometri, le sue acque riverberanti dal riflesso del sole sui sassi, ed i suoi bracci, che si ricollegano per poi ridividersi a seconda delle profondità e delle correnti.
Grazie alla tenacia di chi si è opposto alle colate di cemento che avrebbero dovuto arginarlo (va anche detto, a rigor di cronaca, che Latisana trema ad ogni vera piena), si è mantenuto finora invidiabile scrigno di biodivdersità, meta di studiosi di tutto il mondo: qui si trovano fauna e flora altrove scomparsi, qui i ragazzi della scuola di mosaico di Spilimbergo arrivano per prelevare proprio I famosi “claps di Tiliment”, sassi del Tagliamento, per ricavarne tessere, migliaia e migliaia, tutte diverse perché scolpite ad una ad una con la martellina, e poi riunite a comporre capolavori destinati a tutto il mondo.
Ancor più selvaggio è il suo affluente Arzino, torrente impetuoso che si apre la strada con foga tra rocce e vegetazioni prealpine, con cascate che nel tempo hanno scavato orridi, come quello di Pradis, rendendolo oggi meta (speriamo non troppo, altrimenti addio natura selvaggia) di sportivi che praticano canyoing, o si cimentano nel rafting, sfruttando correnti straordinarie, in contesti di colori strepitosi, dal verde smeraldo delle acque, ai mille riflessi delle rocce, all’azzurro profondo del cielo, quello stesso cielo che ha ispirato il Tiepolo, anche lui così legato al Friuli.
Il Friuli è anche terra di Lettere. Del Friuli (e della sua lingua, il friulano) è figlio Pier Paolo Pasolini, e la sua “Academiuta” di Casarsa. Ma friulani sono anche suo cugino, Nico Naldini, così come Sergio Maldini (e la sua pluripremiata “Casa a Nordest”). Friulani sono stati Carlo Sgorlon, cantore di un Friuli antico, forse più vagheggiato che reale, ed Elio Bartolini. D’altra parte, Paolo Diacono, autore della “Historia Langobardorum”, era appunto di Cividale.
Friulano era padre David Maria Turoldo, segaligno cantore della Vergine e spietato castigatore di un Occidente che, già poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, stava cominciando a perdere di vista I suoi valori. Grande scomodo, Turoldo, che partì da un piccolo paese del Medio Friuli (Coderno, oggi terra di formaggi) ed arrivò a predicare in Duomo, a Milano, fino a quando piccoli uomini, posti troppo in alto per le loro piccole teste, ne chiesero e ne ottennero il trasferimento: e questo ruvido servita, fine teologo, colto biblista e partigiano, si è alla fine ricavato una notorietà che egli pur non avrebbe voluto.
Dei colori friulani veste spesso anche il mondo dello sport. Non solo lo storico Carnera, del resto: da Novella Calligaris a Sara Simeoni, da Enzo Bearzot a Fabio Capello, da Dino Zoff a Fulvio Collovati, con Bruno Pizzul alla telecronaca: alle ultime Olimpiadi, il pur piccolo Friuli (poco più di un milione di abitanti) si è piazzato settimo tra oro, argenti e bronzi.
Se poi tu mi chiedessi: ma cosa mi consiglieresti di vedere, se arrivo “fin lassù”, c’è l’imbarazzo della scelta. La Cividale romana e longobarda, Aquileia con i suoi mosaici paleocristiani ed il museo archeologico, Udine, perla veneta nella pianura friulana, con l’angelo sfolgorante sulla cima del castello ed i dipinti del Tiepolo, Spilimbergo con il suo Duomo romanico e la sua scuola di mosaico, la Carnia, scrigno verde di piccoli paeselli-gioiello, il Santuario di Lussari in cima al Tarvisiano, nella lussureggiante foresta dei due laghi di origine glaciale, Lignano Sabbiadoro, alla foce del Tagliamento, e Grado, l’isola del sole, per finire con i vigneti dei colli orientali.
Ed allora, mentre ti attendo, mi congedo con il nostro “mandi”: “Manus Dei”, che Dio ti protegga (ma probabilmente anche “mane diu”, conservati – sano – a lungo).
E alore, mandi a ducj. E ariviodisi in Friul (con l’accendo sulla u, mi raccomando).
Roberta Zavagno- giornalista