Crisi d’impresa. Transazione fiscale e cram down

Un punto sullo stato dell’arte e sulle "resistenze" dell’Amministrazione finanziaria

Economia

Questa dotta relazione è contenuta nel libro collettaneo Crisi d’impresa. Spunti d’insieme, pubblicato da The Skill Press. Tra gli altri autori Maria Grazia Alfisi e Cristiano Cerchiai (Legalitax Studio legale e Tributario), Francesco Giuliani e Valentina Guzzanti (Fantozzi & Associati Studio legale tributario), Luca Pasquini e Jacopo Villa (Carbonetti e Associati), Fabio Antonio Siena e Giacomo Gualtieri (Studio Bana) e Francesco Rocchi (Studio Rocchi & Associati). La prefazione è di Andrea Camaiora, giornalista esperto in comunicazione di crisi.

 

La transazione fiscale è stata introdotta nel nostro ordinamento con il D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 che ha modificato la Legge Fallimentare inserendovi l’art. 182 ter, in un primo momento limitato al solo concordato preventivo e, successivamente, esteso agli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell’art. 182 bis l.f. (D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169). La versione originaria dell’art. 182 ter l.f. escludeva la possibilità di includere nell’accordo anche i tributi costituenti risorse dell’Unione Europea, con particolare riferimento all’Iva e alle ritenute alla fonte operate e non versate.

Il legislatore italiano del 2016, prendendo atto dell’indirizzo espresso anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha riformulato il testo della norma escludendovi il divieto di falcidia dell’Iva, delle ritenute alla fonte e dei tributi che sono considerati risorse proprie dell’UE.

Sul piano generale la transazione fiscale costituisce un sub procedimento, accessorio e strettamente legato alla procedura di concordato preventivo e all’accordo di ristrutturazione, attraverso il quale l’imprenditore in crisi può predisporre una proposta di accordo nei confronti dell’Agenzia delle Entrate che preveda modalità di pagamento dilazionato e/o parziale dei tributi, anche mediante eventuali garanzie.

La ratio dell’istituto è quella di consentire il recupero dei crediti tributari, previdenziali, assicurativi contemperando l’esigenza di evitare, nei limiti del possibile, la disgregazione dell’organizzazione produttiva dell’impresa debitrice, con la necessità di assicurare il miglior soddisfacimento delle aspettative creditorie.

Durante la fase emergenziale il legislatore (art. 3, comma 1 bis della legge 159 del 27 novembre 2020, di conversione del D.l. 7 ottobre 2020, n. 125) ha anticipato l’entrata in vigore delle disposizioni relative alla transazione fiscale e contributiva introdotte dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.

La grande novità è rappresentata dal potere attribuito al Tribunale di omologare il concordato preventivo anche in “mancanza di voto” da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali e assistenziali il c.d. cram down (art. 180, comma 4, l.f.).

Questo è possibile quando l’adesione dell’Agenzia sia determinante per il raggiungimento delle maggioranze dei creditori previste per l’approvazione del concordato (art. 177 l.f.) e, anche sulla base della relazione dell’attestatore, la proposta di soddisfacimento sia per il Fisco più conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.

Il medesimo meccanismo è previsto per gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis l.f.), con riferimento ai quali si prevede la possibilità di omologa dell’accordo “in mancanza di adesione” dell’Erario e degli enti di previdenza obbligatoria qualora tale adesione sia decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale del 60% dei creditori aderenti necessaria ai fini della conclusione dell’accordo (art. 182 bis l.f.).

Il punto di maggiore interesse è senza dubbio suscitato dalla locuzione “in mancanza” riferita al voto per il concordato e all’adesione per gli accordi di ristrutturazione che può essere interpretata come inerzia del creditore (l’amministrazione finanziaria o l’ente di previdenza), oppure come un’espressa manifestazione negativa nei confronti della proposta avanzata dal debitore.

Sul punto, nel tempo si sono delineati tre indirizzi: uno restrittivo in base al quale si attribuisce al giudice il potere-dovere di omologare l’accordo (c.d. cram down) soltanto laddove non vi sia alcuna espressione di voto o adesione da parte dell’amministrazione finanziaria; un indirizzo estensivo, che attribuisce il potere di cram down anche in caso di voto negativo o di rigetto; e, infine, un indirizzo intermedio, in base al quale il tribunale ha il potere di omologa in caso sia di mancata pronuncia, che di rigetto con riferimento al solo accordo di ristrutturazione, ma non per il concordato. Come anticipato, secondo la preferibile tesi estensiva, la norma trova, quindi, applicazione nell’ipotesi in cui il Fisco – o gli enti previdenziali – non si pronuncino sulla proposta ricevuta, ma anche qualora essi esprimano un formale diniego.

Del resto, l’espressione “anche in mancanza di voto/adesione” suggerisce l’insussistenza del voto quale risultato di una condotta e non la mancanza della condotta medesima costituita dall’espressione del voto. In caso contrario, il legislatore avrebbe potuto utilizzare l’espressione “in caso di inerzia del creditore” oppure “in caso di formalizzazione del voto nei termini”.

Del resto, prevedere la possibilità di un cram down soltanto nell’ipotesi di una mancata espressione del voto o dell’adesione, comporterebbe il depotenziamento di un istituto quale l’accordo di ristrutturazione che, invece, ha una caratterizzazione decisamente negoziale rispetto al concordato preventivo. In quest’ultimo caso, infatti, la mancata espressione di un voto equivale al diniego espresso, con la conseguenza che, a prescindere dall’interpretazione scelta, il risultato sarebbe il medesimo. Invece, l’accordo di ristrutturazione può essere concluso soltanto in caso di accettazione da parte del creditore della proposta formulata dal debitore. Nella prassi, peraltro, il Fisco o l’ente di previdenza hanno mostrato un atteggiamento piuttosto dilatorio in molti casi ritardando la sottoscrizione dell’accordo di ristrutturazione (previgente art. 182 ter l.f.) allo scopo di ottenere un trattamento più favorevole anche nelle ipotesi in cui l’offerta fosse migliore – anche ampiamente – rispetto all’alternativa liquidatoria. La stessa giurisprudenza ha aderito alla tesi estensiva, (tra le altre, Tribunale di Milano decreto del 3 giugno 2021).

La – condivisibile – ratio dell’istituto, del resto,  non può che essere individuata, nelle ragioni di carattere sistematico menzionate, nonché – se non soprattutto – nell’esigenza di “superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate della crisi registrate nella prassi”.

È interessante segnalare come il Tribunale di Milano abbia ritenuto che “il cram down ha lo scopo non tanto di indurre il creditore pubblico ad esprimersi (considerando perentorio il termine per la manifestazione dell’eventuale consenso), quanto piuttosto, e in generale, di evitare immotivate resistenze alla soluzione conciliativa, ove la stessa sia più conveniente per il fallimento”.

La stessa Relazione Illustrativa al Codice della crisi, con riferimento all’art. 48, aveva affermato che “al fine di superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi, è previsto che il tribunale possa omologare gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria”.

Tali “resistenze”, quindi, anche alla luce della pronuncia del Tribunale di Milano non possono che essere individuate tanto nei casi in cui l’amministrazione finanziaria creditrice rigetti la proposta, ma anche laddove ponga in essere un atteggiamento dilatorio.

D’altra parte, la funzione del cram down è quella di conseguire il “preminente interesse concorsuale”, proprio mediante il superamento della “resistenza” dell’ente creditore rispetto alla proposta transattiva: resistenza immotivata in presenza di una convenienza – supportata dalla relazione dell’attestatore – rispetto all’alternativa liquidatoria e in contrasto con il principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.).

Sul punto, si ricorda il principio sancito dalla Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. Ord. N. 8504/2021) a mente del quale l’amministrazione finanziaria dispone, con riferimento alla transazione fiscale, “di una discrezionalità vincolata al maggior soddisfacimento e alla convenienza tra i due termini di comparazione”.

Come anticipato, inoltre, lo stesso art. 182 ter l.f. con l’espressione “in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria”, include oltra alla mancata risposta, anche il diniego, atteso che in esso è riscontrabile parimenti la mancanza di assenso.

Quindi, anche se si dovesse ritenere esistente un dubbio interpretativo, esso dovrebbe essere superabile ricorrendo alla ratio dell’istituto e valorizzando il fatto che il nuovo istituto intende superare quelle situazioni, talvolta patologiche, di particolare intransigenza da parte dell’amministrazione che hanno provocato il “fallimento” dei tentativi di superamento della crisi.

In questa direzione si segnala il D.l. 24 agosto 2021, n. 118, il quale, sempre in adesione alla tesi estensiva, con riferimento al concordato preventivo, ha modificato l’art. 180, comma 4, l.f. adeguandolo all’art. 63, comma 2, del Codice della crisi, modificando l’espressione “in mancanza di voto” in “mancanza di adesione”.

La stessa relazione di accompagnamento esprime chiaramente l’indicazione del legislatore secondo cui “la norma è inserita a completamento delle disposizioni introdotte dall’art. 3, comma 1 bis, D.l. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 novembre 2020, n. 159 atteso che per mancanza di adesione deve intendersi, nel concordato preventivo, anche la mancanza di adesione dovuta all’espressione di un voto negativo, il tribunale può omologare forzosamente la transazione fiscale e contributiva anche a seguito del rigetto della relativa proposta manifestato attraverso il voto contrario”.

Si tratta di un’importante presa di posizione che ha effetto anche con riferimento all’accordo di ristrutturazione dei debiti, in quanto conferma come la stessa regola trovi applicazione a maggior ragione in un contesto “negoziale” come era già previsto dall’art. 182 bis, comma 4, l.f. il quale conteneva il riferimento alla “mancanza di adesione”, espressione di per sé in grado in ricomprendere nel proprio perimetro interpretativo anche il diniego.

Occorre poi chiedersi entro quale termine l’amministrazione finanziaria debba esprimere la propria decisione e decorso il quale il tribunale potrà procedere all’omologazione della transazione “anche in mancanza di adesione”.

Sempre il Tribunale di Milano ha evidenziato la distinzione esistente tra la norma della legge fallimentare e quella del codice della crisi, sottolineando come in quest’ultimo corpus normativo sia espressamente previsto (art. 63, comma 2 CCII) un termine di novanta giorni che decorre dal deposito della proposta di transazione, mentre una disposizione del medesimo tenore non compare nella legge fallimentare.

Sul punto, non potendo “risolvere la lacuna in via interpretativa”, il pronunciamento dell’amministrazione finanziaria potrebbe rilevare anche laddove fosse successivo al termine di novanta giorni, con la conseguenza che nel caso in cui tale pronuncia fosse positiva, non vi sarebbe bisogno del cram down, mentre se fosse negativa, allora si darebbe luogo ad un rigetto, con l’ulteriore conseguenza che, nel caso in cui il Tribunale dovesse accogliere la tesi restrittiva prima richiamata, l’accordo non sarebbe omologabile in via forzosa.

La lacuna è stata colmata con il D.l. 24 agosto 2021, che, all’art. 20 modifica il comma 4 dell’art. 182 bis l.f. introducendovi una disposizione a mente della quale l’adesione del Fisco e degli enti previdenziali alla proposta di transazione formulata nell’ambito di un accordo di ristrutturazione deve intervenire entro novanta giorni dal deposito della relativa domanda.

Da ciò deriva che, inutilmente trascorso tale termine, il tribunale potrà omologare “forzosamente” la transazione e che, nel caso in cui il Fisco e gli enti comunichino successivamente a tale termine il loro rigetto, quest’ultimo è da considerarsi tardivo e quindi tamquam non esset.

Questo principio è stato ribadito da ultimo dal Tribunale di Pisa approvando “forzosamente” una transazione fiscale, nell’ambito di un concordato preventivo, che aveva previsto il pagamento dei crediti tributari nella misura del 3,5% nonostante il voto contrario e decisivo dell’amministrazione finanziaria.

Sotto un diverso, ma complementare, versante si segnala come la pronuncia dell’Amministrazione finanziaria debba “essere motivata, a pena di invalidità”, con la conseguenza che l’atto amministrativo dovrà indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche a base dell’atto stesso, sulla base delle risultanze dell’istruttoria.

L’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo è, infatti, escluso solo per gli atti di portata generale ed astratta (come i regolamenti amministrativi). In questo senso si è pronunciata la stessa Agenzia delle Entrate (Cfr. circolare n. 24/2020 della Divisione Contribuenti), dando disposizione alle proprie direzioni provinciali e regionali di motivare adeguatamente i provvedimenti di rigetto delle proposte di transazione fiscale.

Ad oggi la giurisprudenza pressoché totalitaria ha affermato e continua ad affermare la possibilità di omologare “forzosamente” le transazioni fiscali e contributive, a prescindere dal rigetto dell’amministrazione.

Tutto ciò in piena aderenza ai principi stabiliti dalle stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione (vedi supra) che hanno ribadito quanto stabilito dal legislatore nel D.l. n. 118/2021.

Nonostante ciò, l’Agenzia delle Entrate, INPS e INAIL faticano a prenderne atto e ad agire di conseguenza.

Sul punto, si segnala l’interrogazione parlamentare (On. Giacometto) nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze nella quale si è fatto presente come molte Direzioni Regionali dell’Agenzia delle Entrate stiano sistematicamente rigettando le proposte di transazione fiscale, obiettivamente più convenienti rispetto all’alternativa ipotesi fallimentare: in piena disapplicazione delle prescrizioni e delle finalità della giurisprudenza citata, dell’interpretazione legislativa e, finanche, della stessa Agenzia delle Entrate (Circolare nr. 34/E del 2020).

Peraltro, tali rigetti sono stati nella quasi totalità dei casi “corretti” dai competenti tribunali in applicazione dell’art. 180, comma 4, l.f., così come novellato, nonché della sentenza delle Sezioni Unite del 2021 che ha riconosciuto, tra le altre cose, al Tribunale Fallimentare il potere di annullare o, comunque, di considerare inefficace il voto degli enti pubblici, allorché lesivo dell’interesse concorsuale.

Non si può non segnalare come, laddove non vi fossero stati tali interventi, si sarebbero, potenzialmente, prodotti notevoli danni all’erario, con conseguenti responsabilità dell’ente, oltre alla vanificazione delle stesse finalità perseguite dalla legge e dall’amministrazione.

Tuttavia, la risposta dell’Agenzia dell’Entrate non può che generare delusione.

In particolare, l’Amministrazione ha affermato che la convenienza economica della proposta – che pur rappresenta un parametro di valutazione – assume rilevanza in conseguenza del positivo esperimento dell’insieme di attività istruttorie propedeutiche alla valutazione finale, e che attengono all’attendibilità della relazione del professionista indipendente, alle concrete prospettive di realizzabilità del piano di risanamento, nonché al comportamento del contribuente qualora rivesta il carattere del prolungato, sistematico e deliberato inadempimento degli obblighi fiscali.

Infine, secondo l’Agenzia, la valutazione positiva della proposta scaturisce dalla sintesi degli esiti della complessiva attività di indagine che risente delle peculiarità di ciascuna fattispecie che non può ridursi ad una valutazione astratta della prospettata economicità dell’offerta di soddisfacimento.

Sostanzialmente, il MEF ha affermato che laddove la proposta sia conveniente per l’Erario, essa debba essere approvata dal Fisco.

Inoltre, dalla risposta del MEF sembra emergere come la valutazione della proposta di transazione dei crediti tributari da parte dell’Agenzia delle entrate non si basi esclusivamente sulla convenienza economica della proposta medesima, ma anche su una complessiva attività di indagine che comprende valutazioni circa la realizzabilità del piano di risanamento e il comportamento pregresso del contribuente.

Resta, quindi, in secondo piano l’esigenza di salvaguardare la continuità aziendale e i livelli occupazionali e la possibilità di recuperare gettito fiscale.

 

Francesco Rizzo – Avvocato. Counsel di Ernst&Young Studio Legale Tributario, Docente a contratto di Diritto commerciale

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