Clarice Lispector, una “pernambucana” mistica

Viaggio nel mondo della grande autrice brasiliana, accostata a Virginia Woolf e a Kafka, con sfumature di Joyce. Ma certi raffronti a volte sono fuorvianti

Devo fare un’ammissione di colpa: avevo letto molto poco di Clarice Lispector, grande scrittrice unanimemente considerata una delle voci, se non la voce più alta della letteratura brasiliana del Novecento. 

Ma anche – occorre aggiungere – del modernismo nelle sue manifestazioni più significative e inquietanti. Perché proprio lei e proprio ora? Perché il suo sguardo sulla realtà, la sua capacità di trapassare la superficie delle cose sono talmente potenti da risultare un antidoto non solo letterario ma anche etico-culturale alla superficialità grossolana, volgarmente ciarliera e  ormai anche spregevole della comunicazione attuale. Comunicare tramite la lettura con Clarice Lispector, anche se parzialmente ma nelle sue prove più ardue, è una sfida, richiede coraggio, lo stesso di cui ella parla a proposito della scrittura: “Occorrerà del coraggio per fare ciò che sono in procinto di fare: dire. Ed espormi all’enorme sorpresa che proverò di fronte alla povertà della cosa detta[..]”. Parole che mi fanno pensare al Dante alle prese con la materia del Paradiso di cui ammette l’ineffabilità, a Lucrezio che premette al suo cimento poetico il problema dell’egestas (povertà) linguae e intanto mi predispongo alla lotta della lettura, per corrispondere alla lotta della ricerca condotta dalla Lispector in tutti i suoi scritti, in ogni pagina di ogni suo scritto. Una lotta che è un vero e proprio scavo nell’indicibile, la risposta a un’urgenza che sembra sovrastarla e che ha spesso la qualità della tensione mistica,  un misticismo laico volto a districare il senso delle cose, a trapassarne l’esteriorità per attingere al loro valore ontologico.

Virginia Woolf

Lispector tra Woolf  Kafka

Di lei è stato detto che è un misto di Woolf e di Kafka, con sfumature joyciane, ma certi raffronti non aiutano a comprenderne la penetrante originalità di scrittore, come amava definirsi. Con Kafka Clarice condivide invero la solitudine e l’ebraismo (di quest’ultimo però non fa quasi mai cenno nella sua opera) e la vocazione al silenzio, allorché la parola, pur così densificata, contratta e “slargata” fino all’inverosimile, le appare ancora misera e insufficiente. La stessa drammatica vicenda familiare (nascita nel 1925 in un villaggio ucraino da una coppia di emigranti russi, morte della madre per sifilide contratta da uno stupro durante un pogrom, fuga in Romania e approdo in Brasile all’età di due anni) nella memoria di Clarice sembra non aver lasciato tracce visibili, piuttosto sedimenti nell’inconscio che risalgono alla coscienza nel tema delle “radici”, nella stessa saudade a lei così congeniale come un abito cucito su misura. Diceva di non aver neppure poggiato i piedi sulla nuova terra sudamericana poiché l’avevano portata in braccio! Compensò però lo sradicamento con lo studio dell’ebraico e dell’hiddish, oltre che dei classici,  ma la sua anima parlò sempre portoghese. Nonostante i viaggi imposti dall’attività diplomatica del marito in Italia, Svizzera, USA, la terra di adozione restava sempre la patria da desiderare, il ventre in cui ritornare, l’oggetto di un nostos mentale, interiore, emotivo.

 Il Brasile è la sua carne, la fonte inesauribile della sua lingua visionaria e della sua potenza metaforica; il che non le impedì di apprezzare luoghi come Posillipo (chiamata Pausylipon per rilevarne l’etimologia greca di pausa dal dolore), luoghi di cui ammira la bellezza che però non è impetuosa e selvaggia al pari dei luoghi brasiliani, pieni di odori, uccelli variopinti come l’arara, voci e sussurri della natura che le danno una stretta al cuore quando è lontana. Luoghi che abbaiano storie e lasciano trapelare il mistero della vita e della morte come intreccio indissolubile e che le fanno sentire fredda ed estranea la Svizzera, come scrive da Berna alle sorelle Elisa e Tania, anche se ammette con disperato realismo che “a pensarci bene, non esiste un vero luogo dove vivere”. Sa di non dire la verità, come dimostra un suo intenso romanzo, La città assediata,in cui la protagonista Lucreçia Neves che “non aveva mai avuto bisogno dell’intelligenza” si muove “con le sue zampe”nello spazio del sobborgo di Sao Geraldo ancora odoroso di stalla come in un universo onirico dove gli oggetti “iperfisici”sono segni, si trasmutano a seconda della luce, del momento, del tempo che vi scorre sopra. 

Il massimo della visionarietà e il massimo del realismo

La città è una manifestazione, è luogo dell’attesa e del trapasso,del desiderio e dello smarrimento, della stabilità non permanente, soggetta al fluttuare dei venti e delle vesti, allo sguardo della giovane ottusa che sogna di sposarsi e spostarsi in città, ma  il cui destino è invece quello di tornare alla fine nel borgo natìo. In questo romanzo che risale al 1946 è già ben visibile la “parola”di Clarice: una pietra gettata nel fondo di un pozzo[..]un’esca per catturare ciò che non è parola . Quando la non-parola abbocca, allora qualcosa è scritto. Si capisce perché Ungaretti- che in Brasile insegnò all’Università di San Paulo intorno agli anni Quaranta- l’abbia apprezzata, ma la poetica della Lispector resta inclassificabile se si usano le definizioni codificate (metafisica, surreale, simbolista etcc.).Come osserva Emanuele Trevi, in essa “il massimo della visionarietà coincide con il massimo del realismo”. 

Vuol dire cioè che la Lettera, pur cogliendo nel reale lo Spirito, l’essenza, il deus sive natura ( o viceversa)  non diventa mai figuralità, sfiora al più l’allegoria, ma resta sempre attaccata all’oggetto reale, alla cosa, inanimata o non, tanto non c’è differenza, perché nel testo l’inanimato si anima, l’individuo si materializza, l’aria, i rumori e gli odori sono uno e insieme Tutto: Lo spirito liberato si era unito al vento attraverso la finestra aperta?e,sempre più nitida,lei era un oggetto del salotto[..]Tutto ciò che era stato soprannaturale- la voce, lo sguardo,il modo di essere- era finito; ciò che restava faceva rabbrividire la casa. Sarebbe stato il momento che qualcuno la guardasse, e la vedesse..(ivi). Piuttosto che a De Chirico, che le fece- “senza chiedere i soliti soldi”- il piccolo ritratto divenuto famosissimo, questo passaggio del romanzo, come tanti altri, fanno pensare a quanto affermava Duchamp della sua opera, e cioè che essa esiste finche c’è qualcuno che la guarda. Anche l’opera di Clarice Lispector esiste finché le corrisponde il lettore che essa esige, che chiama a sé sfidandolo ma anche abbracciandolo in una relazione quasi simbiotica; il suo è un monologo perennemente dialogante, è piuttosto un guardarsi allo specchio insieme al lettore, a fianco del lettore che è obbligato a guardare per vedere. 

La componente magica

Anche quando, come nei Racconti (ben Settanta), la scrittrice sembra scegliere la linea fiabesca o del realismo campagnolo, alla fine rivela la forte componente mistico-magica, come accade in Una historia de tanto amor: la bambina che ha nutrito e allevato le sue care galline, dopo aver imparato che esse non ricambiano l’amore e che hanno un destino segnato, si decide a incorporare come suggerito dalla madre Eponina, l’ultima di esse. Mangiò la sua carne e bevve il suo sangue[…] La bambina era un essere fatto per amare : quando divenne ragazza ci furono gli uomini per questo.[..]. A guardar bene, anzi a vedere bene dentro le cose del mondo, tanto l’uomo che la gallina hanno miserie e grandezze ( per la gallina deporre un uovo bianco e di forma perfetta) inerenti alla loro specie. Realismo cinico, dissacrazione o assimilazione del sacro al profano? La risposta è ancora una volta Clarice a fornircela. Forse. Scrivere è cercare di capire, è cercare di riprodurre l’irriproducibile[..] è anche benedire una vita che non è stata benedetta. Scrivere è un divinare: a forza  di guardare anche un bicchiere d’acqua, alla fine diventi “un veggente di fronte a una sfera di cristallo” perché tutto esiste già, è già stato dato e allo scrittore è solo consentito di captare come un negromante le irradiazioni che promanano dalle cose. Questo è quanto farà lungo tutto il tragitto del romanzo considerato dai più il suo capolavoro, la protagonista G.H. la cui passione ( titolo dell’opera è La passione secondo G.H.) consiste nell’incontro casuale e fatale con una blatta ( ecco il richiamo a Kafka!) e nel logorante pas de deux con l’animale, una danza esistenzialistica in cui la protagonista si consuma rilanciando continuamente l’interrogazione sul significato dell’essere, mentre “guarda” la cosa infima e raccapricciante. 

Finirà col mangiarla, dopo aver fatto crollare tutte le sue sovrastrutture, le sue forme identitarie compresa quella umana, in un processo di spersonalizzazione che si rivelerà apertura al divino con evidente allusione eucaristica. Uno scritto spiazzante, che imprigiona il lettore in una ragnatela inquisitoria sull’uomo, sulla sua resistenza al necessario umiliarsi nel divino, ma anche sul Dio che continuamente con la sua “bontà neutra” lo disorienta. Cessare di essermi – è l’affermazione lapidaria di G.H. per poter ritrovare in sé la donna di tutte le donne. L’invito alla desistenza, alla rinuncia dell’uno per il Tutto  è la risposta dell’ebrea brasiliana di Parambuco, figlia della Natura più rigogliosa che c’è sulla terra. Una risposta mistica.

Caterina Valchera Saggista

Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide