“Ci sono perché ci sei”: i social come gabbia d’oro

Spunti da un convegno e da un liubro

“Vivere in un mondo iperconnesso comporta che ogni persona abbia, di fatto, una specie di identità aumentata: occorre imparare a gestirsi non solo nella vita reale, ma anche in quella virtuale, senza soluzione di continuità”.

In presenza di un’autopercezione non perfettamente delineata, o magari di un’autostima traballante, stare in rete può diventare un vero problema: le notizie negative, gli insulti e così via colpiranno ancora più nell’intimo, tanto più spaventosi quanto più percepiti (a ragione) come indelebili.

Nonostante questo, la soluzione non è per forza stare fuori dai social network. “Ognuno di noi ha la libertà di narrare di sé solo ciò che sceglie. Non occorre condividere tutto, e non occorre condividere troppo […] “: si è parlato anche di questo durante il recente Convegno “Giornalismo: verità, linguaggio, etica, carta stampata, on-line, social” organizzato dal Centro Studi Galatana in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, tenutosi nell’Open Space di Lecce, con il patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, che ne ha fatto anche un evento formativo per l’aggiornamento professionale dei giornalisti.

E chissà che faccia avranno fatto i maturandi 2022 nel leggere, tra le tracce della prima prova, questo brano tratto dal libro “Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi, senza spegnere il cervello” della nota linguista italiana contemporanea Vera Gheno e del filosofo della comunicazione del linguaggio Bruno Mastroianni pubblicato da Longanesi: a partire da questo, infatti, li veniva chiesto di riflettere sulle potenzialità e i rischi di un mondo sempre più iperconnesso facendo riferimento anche alla cittadinanza digitale.

Niente di più attuale, vicino, tangibile, sentito: al giorno d’oggi, infatti, sembra che un giovane, soprattutto in età adolescenziale/universitaria, abbia bisogno dell’approvazione altrui per sentirsi legittimato, riconosciuto, sostenuto, realizzato, capace; una sorta di confronto/conforto, che se non bilanciato equamente diventa contorto e porta a una percezione distorta di sé stesso e della realtà, una realtà che non tiene conto dei diversi tempi di ognuno per raggiungere una cosa, perché non tutti siamo , e oserei dire per fortuna, uguali.

Parlando di visibilità in questa bolla d’autoinganno, dettata da algoritmi, oltre la quale non si riesce a vedere, ci si potrebbe ricollegare al pensiero di Edgar Morin, noto sociologo e filosofo francese, che definì accecamento paradigmatico la sindrome che colpisce coloro che restano prigionieri del proprio paradigma teorico, della costellazione di premesse che hanno costruito e dentro la quale sono rimasti chiusi.

La principale conseguenza di questa auto-segregazione è l’incapacità di vedere e riconoscere ciò che sta al di là di quella costellazione, dunque, la condanna a vedere solo ciò che quella costellazione ti consente di vedere. Quella dell’accecamento paradigmatico è una epidemia più diffusa di quanto si possa immaginare: quando un paradigma perde la sua caratteristica più importante (la flessibilità) si irrigidisce, si sclerotizza, si trasforma in una lente che distorce la realtà riducendola a meccanismi elementari, omogenei, semplicistici, predicibili, ricorsivi. In una sola parola: rassicuranti.

Da qui l’importanza, come ci suggerisce il titolo del libro, di comunicare senza spegnere il cervello, di lavorare sul significato che diamo a ciò che facciamo sempre, perché la connessione ha reso tutti dei piccoli personaggi pubblici con una certa visibilità, ma anche l’importanza del linguaggio e delle regole che esistono e bisogna seguire per una comunicazione che rischia di esondare in bullismo e hating.

Il giovane d’oggi spesso è paragonabile a un maratoneta in vetrina: vive gareggiando e dimostrando per mostrare di non essere un passo indietro, alla stregua del motto “ce la fai, se dimostri, se vedo che ce la fai”. Infatti dai video resume pre – laurea o l’esposizione del libretto, ai video prematrimoniali, sulla gravidanza o sull’ avanzamento della crescità del bambino il passo è breve: sembra vi sia il bisogno di urlare una condizione per renderla vera e legittimarla.

Come suggeriscono i due studiosi “occorre che l’essere umano continui a essere, appunto, umano”, bisogna porsi domande, essere parte attiva dell’alfabetizzazione digitale, comprenderne i meccanismi, capire che dietro i social, i post, le foto ci sono persone; è di vitale importanza imparare a discernere la vita online da quella offline: tante volte infatti ci si comporta come se le persone dall’altra parte dello schermo non fossero come noi, e non si badano determinati atteggiamenti che in un contesto offline, appunto, censureremmo.

La Rete siamo noi, e siamo noi che decidiamo a cosa dare visibilità e cosa eliminare dalle nostre vite, siamo noi a dover imparare a gestire gli strumenti digitali senza lasciarci sopraffare dagli stessi, noi a dover capire che per quanto siano fondamentali, conditio sine qua non dell’odierna esistenza, semplificatori di ogni cosa, anche e soprattutto delle distanze, nessun freddo strumento elettronico, nessun clic da casa, potrà mai sostituire un vivido, reale, caldo abbraccio d’anima.

 

Giovanna Giorgia Lubello – Dottoranda di Ricerca Università di Bari

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