Antonio Martino, nel trigesimo un “personale ricordo politico”

Emerge a tutto tondo la figura di un grande liberale, che seguì da ministro degli Esteri le orme del padre, il grande Gaetano Martino.

Ci sono orchestrali e ci sono solisti. Antonio Martino era un solista. Interpretava da par suo lo spartito liberale, ma eccelleva nell’assolo fino al virtuosismo. Era un protagonista, letteralmente: un primattore.

A parte lo studio dell’amata economia, in politica fu impegnato con distacco e distaccato con impegno. Sempre con una punta di civetteria che smussava la punta d’albagia celata dall’impeccabile educazione formale e sostanziale. Era un’anima ben nata, che traspariva per naturale contegno.

Nel Partito Liberale Italiano fu rispettato, non amato né seguìto. Il suo liberalismo collimava poco o punto con la deriva impressa al partito dai dirigenti d’allora. Ecco un personale ricordo politico di Antonio Martino, che traggo dal mio libro di memorie.

Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 ricevetti una sua telefonata. Disse che “ci” dovevamo candidare alle prossime elezioni. Fui sorpreso due volte, saltando sulla prestigiosa poltrona di lavoro nel Senato della Repubblica.

In primo luogo, nelle nostre conversazioni non avevamo lesinato legnate ai partiti, al loro pervasivo strapotere, alla loro inadeguatezza a fronteggiare una crisi conclamata: politica, economica, morale. Amarezza per l’andazzo e freddezza verso la politica politicante erano andate consolidandosi proprio negli ultimi anni. Eravamo sconsolati, senza speranza. Adesso, all’improvviso, dovevamo entrare mani e piedi in un partito? Parteggiare in prima persona nella competizione elettorale per il Parlamento?

In secondo luogo, alquanto stordito non capivo come e con chi saremmo passati dalla politica come passione alla politica come professione, per dirla con Max Weber. Qui Antonio Martino mi trasferì il suo entusiasmo per la novità, a lui ben nota, a me sconosciuta. Di Silvio Berlusconi conoscevo il nome come potevo conoscere il nome di Gianni Agnelli. Quando sentii Martino anticiparmi che Berlusconi aveva fondato un nuovo partito; che il partito sarebbe stato dichiaratamente e genuinamente liberale; che lui ne era magna pars garantendone l’identità ideologica e programmatica, beh ne fui rincuorato e felice.

Fu Martino il mio mentore e mallevadore. Seppi dopo che era la tessera numero 2 di Forza Italia, mentre io, soltanto per fiducia in lui, vi entrai senza neppure conoscerne il nome. Fui candidato grazie a Lui ed eletto deputato grazie a me, nel più difficile collegio di Roma (vi era candidato un segretario provinciale del PCI, sicuro vincente nientemeno!). Martino mi onorò partecipando alla chiusura della mia campagna elettorale, uno speciale segno di amicizia e considerazione per la mia sorte elettorale.

Martino fu l’autore del programma degli “azzurri”, come Berlusconi amava che si chiamassero e fossero chiamati i militanti, anziché lo sgradito “forzisti”. Il Cavaliere trasferì spesso il gergo del pallone nel linguaggio della politica, una scelta dettatagli dalla passione calcistica e dal talento commerciale, l’una e l’altro alla massima potenza. E l’azzurro è il colore della nazionale italiana. Così Forza Italia! Forza Azzurri! dal tifo degli stadi risuonarono nella propaganda elettorale.

Martino fu sequestrato da Berlusconi e rinchiuso nella casa milanese del Cavaliere, dove lavorò per giorni a preparare un imponente apparato di temi e proposte da servire ai candidati e ai simpatizzanti per illustrare la posizione del partito in ogni sede, dai comizi ai seminari, dai media agli incontri. L’opera di Martino, raccolta in documenti e cassette, costruì la fisionomia pubblica di Forza Italia come pure ne costituì l’ossatura ideologica e politica. Quanto a me, tutto questo impianto mi convinceva fino ad entusiasmarmi. Finalmente un partito del liberalismo: copyright Antonio Martino.

Nelle elezioni del 2001 fui escluso dalle liste con un colpo di mano del coordinatore di Forza Italia, , in odio ad un democristiano perbene, il presidente dei deputati, con il quale avevo collaborato. Il centrodestra ottenne una decisiva vittoria e governò per l’intera legislatura. Stavo leccandomi la ferita della mancata candidatura quando Antonio Martino, diventato ministro della Difesa, mi chiamò per rammaricarsi sinceramente che mi avessero rubato nottetempo la sicura elezione. Riteneva che la meritassi perché ero stato per anni “il cireneo”, così disse, del gruppo parlamentare. Di certo per l’antica amicizia, fors’anche per generosità risarcitoria, mi nominò “consigliere politico del ministro della Difesa”. Incarico fiduciario che durò tutti i cinque anni della XIV Legislatura, fino al 2006, quanto la carica del ministro.

Era la seconda volta che Martino diventava ministro. La prima volta era stato ministro degli Esteri nel primo Governo Berlusconi. Ma era finita in meno di un anno per effetto del “governo del ribaltone”, dove fu sostituito da Susanna Agnelli.  Nel ’94 dunque, quando fu chiaro che Martino avrebbe occupato gli Esteri anziché, come era nei voti e nelle attese, il ministero dell’Economia, gliene chiesi la ragione. Mi rispose: “Al giorno d’oggi la politica economica si fa dal ministero degli Esteri”. La risposta mi lasciò perplesso. Poteva essere. Ma gli replicai: “Hai compiuto un così gran lavoro nel preparare il programma, segnatamente economico, di Forza Italia. Sei diventato la bandiera contro lo statalismo, il dirigismo, il fiscalismo. Sei da sempre l’alfiere della liberalizzazione dell’economia e dell’intera società italiana. Abbandonare la prima linea potrebbe dare l’impressione che il partito stesso cambi rotta”. Tuttavia, la cosa era decisa. Non potevo certo cambiarla io.

Ma le vere ragioni per cui Martino accettò gli Esteri furono due, l’una personale, l’altra politica. Lo pensai allora, senza dirglielo, e lo penso adesso.

La prima ragione, individuale, stava nel fatto di avanzare sulle orme paterne. Gaetano Martino era stato tra i più importanti ed influenti ministri degli Esteri della storia d’Italia. Ad un figlio devoto e orgoglioso come Antonio, ripercorrere la carriera paterna, dalla cattedra universitaria al seggio parlamentare, fino a ministro della Repubblica nello stesso dicastero, la soddisfazione dovette sembrare irrinunciabile.

La seconda ragione, istituzionale, risiedeva nelle relazioni internazionali. Il governo Berlusconi era una novità assoluta. La maggioranza parlamentare era basata sì su Forza Italia, un partito nuovo di zecca dichiaratamente liberale, atlantista, europeista, ma comprendeva pure un partito conservatore, nazionalista con venature postfasciste, e un partito avverso alle istituzioni repubblicane, addirittura secessionista. Troppe novità in un solo governo. Bisognava tranquillizzare gli alleati, soprattutto l’America e l’Europa.

Per tradizione familiare, per formazione accademica anche negli Usa, per legami personali con il mondo americano, per coerenza politica, per filoatlantismo, Antonio Martino costituiva la più solida garanzia che Berlusconi e il nuovo governo potessero prestare agli Stati Uniti ed alla Nato. Tanto è vero che l’Alleanza atlantica gli offrì poi insistentemente la carica di segretario generale, che egli rifiutò anche per ragioni climatiche, essendo un gentiluomo meridionale abituato al caldo e legato alla famiglia.

Quanto all’Europa, Antonio Martino, costantemente accusato di essere un euroscettico, definizione che non gli si attagliava, poteva lui, il figlio del ministro degli Esteri che l’unificazione europea l’aveva messa sul binario di partenza con la Conferenza di Messina e avviata con i Trattati di Roma, poteva mai decampare dall’indirizzo paterno? Martino è stato sempre un europeista vero e convinto. Non era euroscettico. Eurocritico piuttosto che euroentusiasta.  Del resto l’Unione europea, come il bicchiere a metà, chi la vede mezza compiuta, chi mezza incompiuta. E c’è da credere che andrà avanti a lungo così, perché la perfezione del genere rimane irraggiungibile finché il genere non viene definito.

L’amore di Martino per l’Europa non è mai stato ciecamente fervido, se parliamo delle istituzioni politiche venutesi formando, euro in primis. Nel 1999, l’anno del referendum sulla quota proporzionale e delle elezioni europee, gli illustrai l’opportunità di capeggiare una lista, autonoma da Forza Italia, per portare nel Parlamento europeo qualche deputato “martiniano”.

Berlusconi l’aveva avversato, Martino ed io avevamo appoggiato il referendum che, sebbene infruttuoso, aveva mostrato milioni di elettori simpatizzanti per il sistema anglosassone di voto e perciò forse potenzialmente proclivi in parte ad eleggere candidati scelti da Martino. Poteva essere l’occasione d’innestare su Forza Italia un ramoscello schiettamente liberale, comprovato da un successo alle europee, per quanto limitato.  Il progetto non gli piacque e finì lì.

Nel novembre 2001, ad appena quattro mesi dall’insediamento e a due dall’attacco alle Torri Gemelle, un evento a me sconosciuto provocò l’ira di Martino che mi comunicò di pensare alle dimissioni. Qualcosa o qualcuno gli erano andati di traverso. Con l’intento di calmarlo ma soprattutto dissuaderlo, gli scrissi: “La tua coscienza t’impedisce di lasciare mentre si combatte. Poi, le dimissioni sono ammissibili solo quando costituiscono il suggello della vittoria della causa sposata. O no?” Il momento critico fu presto superato. Urgevano gravi incombenze per la Difesa e per l’Italia.

Verso la metà della legislatura, nel luglio del 2004, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti fu costretto alle dimissioni dall’ultimatum di Fini e Alleanza nazionale, che intimarono a Berlusconi: o via lui o via noi. I finiani imputavano a Tremonti di aver sbagliato o, peggio, truccato i conti. Roba da niente.

Considerando le ripercussioni interne e internazionali dell’accusa, proveniente addirittura dall’interno della maggioranza governativa, l’estromissione del ministro dell’Economia creò sconcerto nel mondo politico e paura tangibile per le finanze pubbliche perché, come sottolineò Tremonti dimettendosi, “non era stato facile gestire il terzo debito pubblico del mondo non essendo il terzo paese del mondo”. La crisi del dicastero economico doveva essere risolta al più presto.

Con insistenza, Berlusconi pregò Antonio Martino di accettare l’incarico. Per curiosità deve sapersi che i ministeri della Difesa e dell’Economia distano qualche centinaio di metri sulla stessa Via XX Settembre, che unisce Porta Pia al Quirinale. Martino dunque non avrebbe dovuto spostarsi granché, parlando di distanze fisiche. Le distanze politiche erano invece enormi.

Ma il cambio non avvenne perché, nonostante le preghiere e le pressioni, egli rifiutò. Rimase ministro della Difesa, mentre all’Economia andò il direttore generale del Tesoro Domenico Siniscalco. Tra le dimissioni di Tremonti, 3 luglio, e la nomina di Siniscalco, 16 luglio, Martino ascoltò diverse opinioni sull’opportunità della scelta, che per lui e per il governo era di grande momento. Sentì anche me. Gli ricordai che, dopo il 1994, la storia gli offriva la seconda occasione di porre il suo pensiero economico al servizio dell’azione sull’economia nazionale. Egli sentiva l’importanza della svolta, come persona e come ministro, come economista e come governante. Ed io con lui, sebbene al mio livello. Quando mi comunicò che stava per gettare il dado, da suo consigliere politico giudicai doveroso mettere per iscritto il mio parere.

Perciò il 9 luglio gl’inviai una email intitolata “SIC ERAT IN FATIS”. A lettere maiuscole, proprio così. “Caro Antonio, sei stato chiamato a fare ciò per cui ti sei preparato una vita. Se rifiuti, nella Casa delle Libertà insinueranno che ti ritrai quando c’è da rischiare. Seppure non riuscissi a ‘mettere in pratica l’economia’, potresti impedire l’aggravarsi della deriva antieconomica. Comunque, conterà il coefficiente di “martinismo” che immetterai nel governo della finanza pubblica; comunque, il timone della nave sarà tuo, anche quando lascerai che altri o la necessità diano un colpo di barra; comunque, poiché non hai un partito alle spalle, ti è indispensabile quel posto per trattare ogni cosa futura da una posizione di forza che nella Casa delle Libertà ti collocherebbe un gradino sotto Berlusconi ma alla pari dei leaders di partito; comunque, non trovo convincente l’argomento oppostomi secondo cui ‘non ti lascerebbero fare quel che vorresti o, secondo te, dovresti’: e dov’esiste mai tanta autonomia negli affari di Stato?”

“Sono straconvinto che per te sarebbe un grande errore rifiutare e mi permetto di ricordarti l’aforisma che Fanfani citava: quando non sai che strada prendere, scegli la più difficile. Per trent’anni hai insegnato cosa bisognasse fare. Adesso ti viene data la possibilità, se non di farlo, almeno di provarci, e dalla più alta responsabilità di comando. ‘I liberi e forti di oggi, ne esistono ancora, dovrebbero destarsi e confidare nella dinamica di libertà-realtà, mettendosi coraggiosamente contro il conformismo statalista che opprime e soffoca ogni iniziativa’”.

“Hai l’occasione storica di apporre il tuo nome sul primo tentativo di ridurre le tasse in Italia. È il momento di applicare il cardine del tuo programma economico del 1994 e della tua teoria economica di sempre. Non posso pensare che esista una plausibile ragione per voltare le spalle a tutto questo. Il dio di Socrate ti illumini! Spero che ci ripensi. Ho parlato e mi son salvato l’anima. Ma egualmente mi rattrista vederti smontare dal cavallo di battaglia”.

La mia lettera non ebbe né poteva avere risposta. Tuttavia il ministro Martino non prese a male la cosa. A parte le reazioni del consigliato, il compito del consigliere è assolto sia quando il consiglio viene accolto sia quando viene respinto. Del resto il consigliere fornisce il parere allo stato delle conoscenze, non pronuncia un vaticinium ex eventu. Inoltre, consigliare è facile; decidere, arduo; la responsabilità tocca a chi decide, non a chi consiglia.

Era già capitato in un altro episodio di speciale importanza che il mio avviso non trovasse accoglienza. Nel 2000 il Parlamento aveva elevato la Benemerita a quarta forza armata, accanto a Marina, Esercito, Aviazione. Il comandate generale dei Carabinieri era stato sempre, dalla fondazione, un generale dell’Esercito. L’ultimo venne a scadenza nel 2004.

Il Governo pensò di nominare per la prima volta nella storia dell’Arma un comandante generale proveniente dai ruoli interni, insomma d’insediare un carabiniere a comandante generale dei Carabinieri. Non era una novità da poco. La nomina, straordinariamente importante, è sempre stata decisa di comune accordo tra ministro della Difesa, presidente del Consiglio, presidente della Repubblica, i quali la concertano sebbene la deliberazione spetti al Consiglio dei ministri. Antonio Martino volle conoscere la mia opinione. Gliela comunicai con una nota scritta:

“La nomina di un carabiniere a comandante dell’Arma ha almeno le seguenti controindicazioni: 1. sarà praticamente impossibile tornare indietro alla prassi anteriore e ciò in futuro legherà le mani al Governo della Repubblica; 2. se il prescelto è il generale più anziano, s’istituisce un precedente che, prima o poi, porterà a concedere lo stesso onore a quasi tutti i legittimari, com’è successo, per esempio, nella Corte costituzionale; e dunque, di fatto, il Governo perderà il potere di nomina perché prevarrà l’automatismo dell’anzianità (se no, gli esclusi presenteranno ricorsi, con il conseguente spettacolo sgradevole di un’Arma percorsa da lotte intestine e giudiziarie); 3. se il prescelto non è il più anziano, si troverà a comandare sopra i suoi ex comandanti: situazione poco ‘funzionale’ in ogni struttura burocratica e forse esiziale in una forza armata, specie come l’Arma; 4. la commissione d’avanzamento degli ufficiali è presieduta dal comandante generale, sicché, se fosse un carabiniere, avremmo ovvie cordate, eccetera; 5. concludendo, la nomina di un comandante esterno è nell’interesse dello Stato e del Governo, che poi potrà scegliere con più libertà e tra più soggetti”. La nomina fu fatta. Il 6 maggio 2004 un degnissimo generale dei Carabinieri fu insediato per la prima volta al comando dell’Arma. Spetta ad altri valutare con il senno di poi se e quali punti del mio appunto la realtà abbia riscontrato”.

Fin qui ho estratto dal mio libro “Deputato per caso. Ricordi personali e memorie politiche”. Ma devo concludere con un’aggiunta importante.

Sono un debitore politico di Antonio Martino, il quale amava ripetere che la riconoscenza è il sentimento della vigilia. In cuor mio, no. È anche postuma. Tenevo a dirlo in pubblico. Lui lo sapeva già. E poi, chi azzarda che con la scomparsa di Martino il liberalismo italiano sia finito, non sa dove guardare, oltre ad esagerare tanto che Antonio per primo ne sarebbe stupefatto. Lui, “semplicemente liberale”.

 

Pietro Di Muccio de Quattro – Direttore emerito del Senato della Repubblica, Ph.D. dottrine e istituzioni politiche 

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