Il Caso Sinner, quando il Diritto Sportivo perde la bussola del buon senso

Alcune osservazioni di chi si auto-definisce “un artigiano del diritto”. Necessario un ripensamento dei principi

La vicenda di Jannik Sinner offre uno spunto di riflessione non solo sulla responsabilità oggettiva, ma anche sugli altri due principi cardine del diritto sportivo: il criterio del “più probabile che non” e il principio di precauzione. Questi tre pilastri, pensati per tutelare l’integrità dello sport, rischiano talvolta di creare un sistema eccessivamente rigido che può portare a risultati paradossali.

La responsabilità oggettiva, come abbiamo visto, ha portato alla squalifica di Sinner nonostante l’assenza di dolo e di benefici prestazionali. Ma come si intrecciano gli altri due principi in questa vicenda?

Dentro al caso

Il criterio del “più probabile che non” (comfortablesatisfaction) rappresenta lo standard probatorio utilizzato nel diritto sportivo, posizionandosi a metà strada tra la “preponderanza delle prove” del diritto civile e il “oltre ogni ragionevole dubbio” del diritto penale. Nel caso Sinner, questo principio avrebbe dovuto portare a una valutazione più sfumata della situazione. Se è “più probabile che non” che l’atleta non avesse intenzione di doparsi e non ha ottenuto vantaggi prestazionali, come confermato dalla stessa WADA, perché applicare comunque una sanzione così rigida?

Sinner – Licenza Creative Commons

Il principio di precauzione, d’altra parte, giustifica l’adozione di misure preventive anche in assenza di certezza scientifica sui rischi. Questo principio si manifesta nella classificazione delle sostanze proibite e nell’aggiornamento costante delle liste antidoping. Nel caso del Clostebol utilizzato dal team di Sinner, il principio di precauzione ha portato alla sua inclusione nella lista delle sostanze vietate. Tuttavia, quando l’uso di tale sostanza avviene in un contesto terapeutico, senza alcuna finalità di enhancement prestazionle, l’applicazione rigida di questo principio rischia di trasformarsi in un eccesso di zelo regolatorio.

L’interazione tra questi tre principi nel caso Sinner crea una sorta di “tempesta perfetta” giuridica: la responsabilità oggettiva lo rende responsabile indipendentemente dalle circostanze; il criterio del “più probabile che non” viene applicato in modo meccanico nonostante le evidenze a suo favore; e il principio di precauzione giustifica una sanzione anche in assenza di rischi reali per l’integrità sportiva.

Questa sovrapposizione di principi solleva questioni fondamentali sulla giustizia sportiva

Se il fine ultimo è proteggere l’integrità dello sport e garantire una competizione leale, un sistema che punisce anche chi non ha cercato vantaggi illeciti sta davvero servendo il suo scopo?

La rigidità nell’applicazione di questi principi rischia di trasformare il diritto sportivo in un meccanismo automatico di sanzione, perdendo di vista la necessità di una giustizia sostanziale. La vicenda assume i contorni di una ricerca del “capro espiatorio”, dove la necessità di dimostrare l’efficacia del sistema antidoping rischia di prevalere sulla ragionevolezza delle azioni intraprese. Il fatto che Sinner sia il numero uno del tennis mondiale sembra aver amplificato l’attenzione e la severità del trattamento.

Occorre ripensare i principi

Il caso Sinner suggerisce la necessità di un ripensamento nell’applicazione di questi principi. Non si tratta di abolirli, ma di interpretarli in modo più flessibile e contestualizzato. La responsabilità oggettiva potrebbe essere mitigata quando è evidente l’assenza di dolo e di benefici prestazionali. Il criterio del “più probabile che non” dovrebbe essere applicato non solo per stabilire la violazione formale, ma anche per valutare il contesto complessivo. Il principio di precauzione, infine, dovrebbe considerare non solo i rischi potenziali di una sostanza, ma anche le circostanze del suo utilizzo.

Solo attraverso una riforma del sistema che permetta un’applicazione più equilibrata di questi principi si potrà evitare che altri atleti si trovino vittime di un meccanismo che, nato per proteggere lo sport, rischia di trasformarsi in uno strumento di ingiustizia. Il caso Sinner potrebbe rappresentare un punto di svolta per ripensare il diritto sportivo in una direzione più equa e ragionevole, senza per questo compromettere la lotta al doping.

 

Vincenzo Candido RennaAvvocato

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